La presidente, ormai forte del successo della liberazione di Cecilia Sala, fa l’inviata di Trump. Sui soldi dati da Fdi per la sede di Acca Larentia a Casapound: peggio se diventava un fast food
Si sente forte, tutto le sorride. Intanto l’atmosfera di una conferenza di un presidente del consiglio non è mai ostile; tanto meno quando ha l’aria di durare: e Giorgia Meloni quell’aria ce l’ha. In più è il giorno dopo la liberazione di Cecilia Sala, dopo 21 giorni di carcere a Teheran: un successo indiscutibile del governo, e suo. All’aula dei gruppi parlamentari di Montecitorio, oltre ai 160 cronisti accreditati, c’è una coreografia variegata di un’ottantina di ospiti: direttori Rai e aspiranti tali, Fdi sparsi in versione magi. In prima fila c’è il presidente di Ecr Procaccini, in seconda il sottosegretario Mantovano, dallo scivolo laterale plana il ministro Foti.
Una domanda al dì
Eppure lei esordisce in attacco: il presidente dell’ordine dei giornalisti Carlo Bartoli, mitemente, le fa notare che una conferenza stampa all’anno per un premier è un po’ poco. Replica a brutto muso: nel 2024 ha risposto a 350 domande di cronisti, dice, «quasi una al giorno». Per lei è già tanto. Morale: dopo le 41 domande di ieri, si sentirà a posto almeno per un mese e mezzo.
Nelle tre ore davanti i cronisti dà poche notizie: racconta, e la capiamo con il cuore, che «chiamare una madre per dirle che suo figlia stava rientrando a casa», la mamma di Sala, è stata l’«emozione più grande». Non svela dettagli sulla contropartita concessa all’Iran, «il lavoro ancora complesso non è terminato e penso si debba discutere nei dettagli nelle sedi opportune». Anticipa che «se riesce» andrà «volentieri» il 20 gennaio negli Usa all’insediamento di Trump. Salvini non sarà solo.
Per il resto si concede ragionamenti tetragoni alle obiezioni: sull’elezione dei quattro giudici della consulta mancanti «non dipende solo da noi, abbiamo già avviato le interlocuzioni con le opposizioni» (le opposizioni negano); sui migranti assicura che i «centri in Albania sono pronti ad essere operativi», è sicura che l’ultima sentenza della Cassazione «dà ragione al governo». Sulle carceri non c’è appello di papa Francesco o di Mattarella che tenga: niente indulto né amnistia, il «modo serio» di affrontare il tema è «ampliare la capienza» e «rendere più agevole il passaggio dei detenuti tossicodipendenti nelle comunità».
Su Musk: e allora Soros?
Il catalogo delle faccette insofferenti è tutto per le domande su Elon Musk. Non la preoccupa affidare servizi di comunicazione militare alla società dell’uomo più ricco del mondo, proprietario di un social da cui bombarda le democrazie europee, dalla Gran Bretagna alla Germania. No, non la preoccupa: sul sistema satellitare Starlink l’accordo non c’è, ma ci sarà: «Siamo nella fase istruttoria, non capisco tutte le accuse che sono state rivolte». Sarebbero domande: «Non è mio costume utilizzare il pubblico per fare favori agli amici, l'unica mia lente è l'interesse nazionale e non le amicizie o le idee politiche di chi deve investire in Italia», «Non posso accettare che venga appiccicata una lettera scarlatta a chi ha buoni rapporti con me».
Musk non «ingerisce» nelle politiche altrui: anche se ha attaccato i magistrati italiani e costretto il Colle a replicargli. «L’ho visto accadere per anni senza che nessuno dicesse una parola». Ce l’ha con il magnate Soros. Le si fa notare che Soros, su cui le destre hanno montato campagne antisemite, non è in un governo, né ha un social: non rileva. «Io sono libera di giudicare quello che Soros fa e lo considero molto più ingerente di quanto non sia Musk. Io non lo faccio, non l’ho mai condiviso, ma da questo a definirlo pericoloso mi sembra eccessivo». Musk non è un pericolo per la democrazia, Soros sì. In serata, da X, Musk chiosa da bullo: «E Soros sta per essere sconfitto».
Non sono un pericolo neanche le minacce di Trump – anche di invasione – contro la Groenlandia danese, paese Nato: «Ha un modo energico per dire che gli Usa non resteranno a guardare» l’espansionismo cinese, ma non «tenterà annessioni con la forza». Né abbandonerà l’Ucraina; quanto ai dazi che minaccia, «non è una novità delle amministrazioni americane». Le opposizioni l’accusano di non parlare «del paese reale», della sanità, di non rispondere sulle bollette, di essersi ridotta «all’ufficio stampa di Trump».
In effetti Meloni è già nella parte dell’inviata Usa in Europa: invita gli europei a stare buoni. Ha fregato Salvini, che sperava per sé al ruolo di emissario, e affonda: non tornerà al Viminale, «sarebbe un ottimo ministro dell’Interno ma anche Piantedosi lo è»; è fredda sul referendum sull’autonomia, «farò un passo indietro». Per rafforzarsi non le serve più neanche il premierato. L’obiettivo, dice, è «arrivare alle prossime elezioni» con la riforma. Ma si capisce che la spinta propulsiva è esaurita.
Casapound sì, no fast food
Un’altra domanda che le provoca una sequenza di espressioni infastidite: Domani ha svelato che la Fondazione An, nel cui cda siedono 11 Fdi su 14 membri, ha donato 30mila euro all’associazione Acca Larenzia, presieduta da un esponente di Casapound, per comprare la sede davanti alla quale ogni anno si svolge il rito del «presente» a braccio teso.
Ergo fra Fdi e i «fascisti del nuovo millennio» i rapporti sono affettuosi? «Ritegno di dovermi occupare di altro», sono cose «che sono state condivise con me». Poi sì, ammette: «Quella è una storica sede del Msi. Era stata messa all’asta dall’Inail, sono contenta che non sia diventata un fast food».
© Riproduzione riservata