- In Vigilanza il ministro Urso attacca l’ad. Ma tutto lo stallo nasce dalle papere della premier. I suoi sono assetati di posti di vertice, la Lega la attacca.
- La premier fallisce in tutti i tentativi di allontanare il manager. Se la promessa occupazione di posti dovesse essere rimandata, per lei sarebbe una sconfitta colossale. E quel che è peggio, autoinflitta.
- Il Pd, fin qui silente, difende l’ad. Graziano: «Il centrodestra vuole occupare la Rai. Ma la Rai non è soggetta a spoil system ed ha un cda nel pieno delle sue funzioni. Il governo dica come intende garantire le risorse per il servizio pubblico con il canone. Al momento ha poche idee e confuse»
«È evidente che l’attuale fase di incertezza che la Rai sta vivendo è di ostacolo anche alla definizione dello schema di contratto di servizio». Alla prima seduta della commissione Vigilanza Rai, ieri mattina, è andata in onda una strana puntata della serie tv «La Rai meloniana». Protagonista il ministro del Made in Italy Adolfo Urso. Che manda a dire all’ad Carlo Fuortes di darsi una mossa sul piano industriale. In realtà le cose non stanno così: il piano industriale è costruito sul contratto di servizio. E poi la «fase di incertezza» di Viale Mazzini è tutta autoprodotta dai pasticci di una maggioranza che ha progettato l’occupazione della Rai, tentato l’assalto al cda, preso due clamorosi pali nel tentativo di dimissionare l’ad; nel frattempo si è dilaniata in litigi fra Fdi e Lega sulle nomine e sul canone (la Lega vuole abolirlo). E invece Urso, con aria da parte lesa, se la prende con Fuortes. Il quale, lamenta, neanche gli risponde al telefono. Ma anche in questo caso le cose non stanno così.
La staffetta infida
Fin qui la Giorgia Meloni ha brigato, Fdi e salviniani hanno minacciato sfracelli, ma nessuno è riuscito a mettere in piedi una soluzione per scalzare il manager nominato da Mario Draghi. Perché lo spoil system in Rai formalmente non è consentito: cosa che fino a ieri l’opposizione aveva misteriosamente dimenticato. Il piano di Palazzo Chigi era nominare amministratore delegato Roberto Sergio, ora a RadioRai, e Giampaolo Rossi direttore generale con sostanziose deleghe operative; e il giuramento che poi Sergio avrebbe ceduto il posto al melonianissimo Giampaolo Rossi (che deve aspettare un anno per la nomina in quanto già componente del precedente cda).
I due erano già stati avvistati in riunioni in cui si facevano e disfacevano organigrammi di fedelissimi. Ma l’ipotesi della staffetta sembra sfumata: a causa del velenoso sospetto che alla fine il patto non sarebbe stato onorato. Risultato: la furia di sostituire Fuortes ha prodotto solo figuracce. Ora palazzo Chigi dovrà ripensare la strategia. E forse riparare su discese meno ardite e strade più ponderate.
E dire che era iniziato bene, il rapporto fra Meloni e l’ad, sin dai tempi in cui Fdi era all’opposizione di Draghi e non aveva consiglieri di amministrazione (come ora del resto). Lei, diventata premier, aveva anche pensato di tenerselo, e affrontare con calma la gola dei suoi proci. Ma certo, gli attacchi di Salvini erano quotidiani. Sparava sull’azienda, per colpire lei.
Mattarella al Teatro Ariston
Ma poi c’è stato il festival Sanremo. Per la Rai un successo smagliante. Che però Meloni prende come un alto tradimento: la presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in platea, per assistere al monologo di Roberto Benigni, un omaggio ai 75 anni della Costituzione, è una prima assoluta. Di cui fino all’ultimo nessuno, ma proprio nessuno, sa nulla. Neanche il cda. Soprattutto, non ne sa nulla la premier. Che a questo punto si inviperisce.
Le polemiche della maggioranza contro l’azienda fanno un salto di qualità. Meloni scioglie le briglie ai suoi. Fedez, Chiara Ferragni, Blanco: per lei è uno spettacolo tutto sbagliato, tutto di sinistra, persino Amadeus passa per un bolscevico. Il 6 marzo convoca Fuortes. Vuole che se ne vada. Alla fine dell’incontro il comunicato di palazzo Chigi è gelido: «Nel corso del colloquio è stata esaminata la situazione economico-finanziaria della Rai in vista del bilancio consuntivo 2022 che verrà chiuso entro il mese di aprile 2023. Il presidente Meloni e Fuortes torneranno a incontrarsi dopo l’approvazione del bilancio».
La campagna mediatica contro il manager si infittisce (ma, altra curiosità, i colpi non vengono solo da destra), eppure non c’è nessun motivo decente perché Fuortes debba dimettersi sua sponte. Dunque non c’è scampo: tocca al governo trovare una soluzione all’altezza.
E qui cominciano le papere della premier e del suo problem solver, il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano. Spunta l’ipotesi di trasferire l’ad alla sovrintendenza della Scala di Milano: il contratto di Dominique Mayer scade nel 2025 ma il cda può indicare il successore in anticipo. Il sindaco Beppe Sala fa sapere che vuole una soluzione condivisa, fra i consiglieri c’è il banchiere Giovanni Bazoli, il suocero. Non se ne fa nulla: dicono che i milanesi non vogliono un romano. Esce allora l’idea del Teatro San Carlo di Napoli: il sovrintendente Stéphane Lissner è pensionabile, ha 70 anni, ma le regole gli consentono di restare, a differenza dei colleghi italiani. Per sostituirlo serve una norma ad hoc, anche solo una circolare del ministro. Ma Lissner dà mandato ai suoi legali. E di nuovo Meloni e Sangiuliano devono battere in ritirata.
Il Pd si accende
Una settimana fa il bilancio Rai viene approvato all’unanimità. Quindi di fatto Fuortes viene “rifiduciato” dal cda. Intanto Salvini è sempre più preoccupato che la nomina di Rossi equivalga a una Meloni pigliatutto. Forza Italia, ovvero Gianni Letta e Marina Berlusconi, non sono interessati a scatenare l’inferno per un cavallo, ancorché un cavallo Rai.
Il Pd, fin qui spettatore stranamente silente, finalmente dice una cosa (di sinistra): dall’audizione di Urso, dichiara il capogruppo dem in Vigilanza Stefano Graziano, «è emerso forte e chiaro che il centrodestra vuole occupare la Rai. Peccato però che la Rai non sia soggetta a spoil system ed ha un cda nel pieno delle sue funzioni». E allora si rassegnino a farlo lavorare, «si faccia rapidamente il piano industriale e si firmi il contratto di servizio in modo da mettere l’azienda nelle condizioni di programmare e svolgere al meglio le proprie attività», e «il governo renda noto come intende garantire le risorse per il servizio pubblico radiotv attraverso il canone, poiché al momento sembra avere poche idee e confuse». Nel frattempo Fuortes ha portato a casa un accordo che la Rai inseguiva da decenni: il centro di produzione di Milano si trasferirà alla Fiera Milano, cosa che consentirà di vendere la sede di Corso Sempione, incassare più di 200 milioni con cui finanziare il piano immobiliare di Roma, ovvero la ristrutturazione di Viale Mazzini, Saxa Rubra, via Teulada, e le sedi di Napoli Torino.
Se adesso Meloni non si inventa qualcosa, al prossimo incontro rischia di dover chiedere all’ad di restare. Accontentandosi di qualche nomina, ma fatta con criterio: come sostituire Antonio Di Bella, direttore degli Approfondimenti, che presto andrà in pensione. O Monica Maggioni, direttrice del Tg1, data in partenza per RaiCom. Anche se qui, al Tg1, ora c’è un problema: Meloni vuole il suo carissimo Gian Marco Chiocci, un esterno. Rossi, capo in pectore, invece preferisce Nicola Rao, oggi vice di Maggioni: sa che Chiocci gli insidierebbe il ruolo di capo-Fdi nell’azienda.
Per la premier rischia di finire maluccio. Se la promessa occupazione dovesse essere rimandata, per lei sarebbe una sconfitta colossale. E quel che è peggio, una sconfitta che si è inflitta da sola.
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