Dubbi non ce ne sono più, ormai, e bisogna solo attendere il Consiglio dei ministri di oggi per la ratifica: il nome italiano per la Commissione europea è quello di Raffaele Fitto, mancano solo le procedure formali e soprattutto l’indicazione delle famose «deleghe di peso» da contrattare con la presidente Ursula von der Leyen. Eppure, gli equilibri della compagine di governo rientrano dalla pausa estiva più fragili che mai e spostare un tassello è sempre un azzardo. Tanto più che Fitto – ministro con delega agli Affari europei, coesione e Pnrr – ha per le mani un pacchetto quantomai delicato che ora dovrà trovare un altro referente.

La nomina

L’incoronazione interna di Fitto a candidato unico del governo è stata incassata. «Ha i numeri per essere un ottimo commissario», ha detto Matteo Salvini la settimana scorsa e ieri anche Antonio Tajani è intervenuto con l’attivismo che contraddistingue questa stagione politica di Forza Italia. Del resto gli azzurri sono anche l’unica forza politica di governo a sedere con il Ppe nella maggioranza che guiderà l’Ue per i prossimi cinque anni e il ministro degli Esteri si è proposto come interlocutore tra l’esecutivo e i nuovi vertici europei, che ha incontrato ieri. A von der Leyen e Roberta Metsola Tajani ha ribadito «l’importanza di avere una posizione chiave per Fitto», come «una vicepresidenza esecutiva», perorando con la forza di una voce amica la causa del commissario italiano.

Per la premier Giorgia Meloni, la nomina di Fitto in Europa rappresenta una garanzia di fedeltà: il ministro è uomo a lei molto vicino e i due sono legati da un forte legame di fiducia. Non a caso gli è stato affidato il delicatissimo compito del Pnrr e la cassaforte economica derivante. Ora che il suo profilo è stato ritenuto più utile a presidiare il nuovo governo europeo, nell’esecutivo rimane un vuoto complicato da colmare.

Da più parti, tra le fonti di maggioranza, vengono messe in fila le preoccupazioni. La prima è che le sue dimissioni da ministro aprano le porte a un possibile rimpasto. La seconda è che si stia riproponendo ancora una volta la mancanza di classe dirigente dentro il partito di maggioranza al governo, viste le competenze necessarie per gestire la fase finale – e più delicata – di messa a terra dei progetti del Pnrr. La terza, infine, è che la casella sul Pnrr non ha pretendenti di peso: il timore è che l’incarico porti con sé molti più oneri che onori, tra controlli della Corte dei conti e verifiche europee sullo stato di avanzamento dei lavori e la spada di Damocle della revoca dei fondi in caso di mancato completamento dei progetti.

Le alternative

Meloni conosce tutti questi problemi e si sta prendendo tempo per riflettere: i tempi di insediamento non sono immediati e Fitto dovrebbe lasciare il governo tra ottobre e novembre.

Su questo aspetto intendono incalzare le opposizioni e il deputato di +Europa Benedetto Della Vedova ha detto che «se Meloni indicherà Fitto, è bene che nello stesso istante indichi il sostituto del ministro nella gestione del Pnrr, evitando di spacchettare le responsabilità», perché ora «inizia il biennio cruciale e conclusivo del piano». Più facile a dirsi che a farsi.

Per ora la linea sul tavolo, confermata da fonti sia di Fratelli d’Italia sia di Forza Italia, è che le deleghe rimarranno invece a palazzo Chigi. «L’ultima cosa detta è che le deleghe rimarranno alla presidenza del Consiglio, ripartendole tra i sottosegretari», viene spiegato. In particolare tra Giovanbattista Fazzolari e Alfredo Mantovano, con l’ipotesi in campo di creare un nuovo sottosegretariato. In pole, secondo fonti di maggioranza, ci sarebbe il nome della deputata e presidente della commissione Bilancio, Ylenja Lucaselli, molto considerata tra gli eletti e figura di riferimento per i temi economici e di finanza pubblica di Fratelli d’Italia, che negli ultimi mesi ha preso sempre più spazio anche televisivo. Tra le suggestioni è che a lei possano andare i progetti che riguardano il sud, che sono decisamente corposi e hanno bisogno di una regia unica.

La convinzione, tuttavia, è che Meloni non voglia nemmeno sentir parlare della parola «rimpasto» e che per questo l’interim sulle deleghe di Fitto rimarrà stretto a palazzo Chigi, salvi nuovi stravolgimenti che comportino la necessità di ritoccare la compagine ministeriale. Non ultimo, viene fatto notare, un mutamento delle condizioni della ministra al Turismo Daniela Santanchè, in attesa degli esiti dell’inchiesta giudiziaria in cui è coinvolta.

Tuttavia, sia Fitto che Santanchè sono due ministri espressione di FdI e le deleghe «rimarranno in quel perimetro», dice una fonte di FdI, dunque nessuno tra Lega e Forza Italia potrà accampare pretese di allargamento. Questo è infatti il rischio da scongiurare: dopo un’estate di contrasti più o meno accesi – tra Ius scholae e autonomia – premiarne uno può scatenare reazioni imprevedibili dall’altra parte.

Consapevole di questo, il deputato di FI Alessandro Cattaneo, ha sottolineato che «non ci sono elementi per immaginare un rimpasto ampio» ma «auspichiamo che si facciano delle scelte puntuali» e «sarebbe un bel segnale riuscire ad arrivare in fondo ai cinque anni di governo senza mai cambiare assetto». In altre parole: niente scossoni né rimescolamenti. Poi «se le deleghe di Fitto verranno spacchettate o ci sarà un nuovo singolo ministro, sarà Meloni a scegliere», è la linea azzurra.

L’accentramento totale a palazzo Chigi dunque è la tentazione più ovvia della premier, che preferisce tenere strette a sé le questioni più delicate per evitare di incorrere in rischi politici. Tuttavia, c’è la consapevolezza che i suoi sottosegretari sono già oberati e il Pnrr richiede la partecipazione a tavoli, cabina di regia e procede ancora a rilento, con la spesa dei fondi ferma al 26 per cento dei 194 miliardi previsti dal piano. Senza un profilo dedicato oltre che con i rallentamenti fisiologici al cambio di assetto, i colli di bottiglia burocratici però rischiano di aumentare ulteriormente.

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