Un po’ assomiglia alla rigidità dei piani quinquennali dell’Urss, ma un altro po’ è anche un fiore all’occhiello dell’Italia. Chissà qual è la versione reale. Fatto sta che la fotografia dei problemi del Pnrr è nello scontro tra due pesi massimi del governo Meloni.

Da un lato c’è il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che traccia un parallelo, per quanto ironico, tra i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza e quelli dell’Unione sovietica, chiedendo qualche deroga alla Ue, in vista di possibili slittamenti di alcuni cantieri. E c’è un altro ministro, il titolare del dossier Raffaele Fitto, che sul Pnrr invece rassicura tutti. Proprio ieri ha ribadito: «L’Italia è il Paese che ha raggiunto il maggior numero di obiettivi e che nella fase di avanzamento e performance del Piano è più avanti», ha detto ieri, citando un rapporto dell’Ue.

«Non lo dico per alzare le penne», ha aggiunto Fitto, «ma perché mi dispiace un po’ che nel dibattito italiano questo rapporto sia scomparso nelle nebbie dell’assenza e non venga valorizzato. Perché non è un risultato del governo, ma del Paese».

Il piano di Fitto

Insomma, i problemi per Fitto non ci sono. E se ci sono, meglio coprirli con auto-elogi. Il diretto interessato, del resto, è in procinto di trasloco a Bruxelles. In Europa è atteso dall’incarico di commissario, salvo clamorosi cambi di scenario nei prossimi giorni.

Fatto sta che al Mef, Giorgetti ha avviato da mesi la campagna per chiedere la proroga delle scadenze previste dal Piano. Secondo la sua visione, è necessaria maggiore flessibilità, nella consapevolezza che il Piano abbia un impatto anche sul Pil. Quindi sulle risorse a disposizione per scrivere la prossima e le future manovre economiche. In ogni caso è il segnale che qualcosa non sta funzionando a pieno regime, anzi. Se c’è bisogno di un supplemento di tempo, vuol dire che davvero l’attuazione non procede così spedita.

Il clima di tensione tra Fitto e Giorgetti è indicatore che la grana del Pnrr sta per esplodere sul tavolo del governo. Nell’ultima relazione, infatti, nei primi sei mesi dell’anno c’è stata una spesa effettiva di poco superiore ai 9 miliardi di euro, portando il complesso a 51,3 miliardi di euro, un quarto del totale. «Si parla solo della spesa, ma noi otteniamo le risorse perché raggiungiamo le rate e le rate sono fatte di decine di obiettivi», si è difeso sul punto Fitto, minimizzando sulla questione ritmo della spesa e spostando il focus su altri elementi.

Erede cercasi

Gli esercizi di ottimismo non sono sufficienti. Al Mef sono consapevoli che i guai del Pnrr stanno solo per palesarsi ora. Con un problema aggiuntivo. A breve il titolare del dossier - salvo clamorosi cambiamenti last minute – andrà altrove, lasciando la questione scottante nelle mani altrui. Peraltro, la questione sostituzione di Fitto è tutta da valutare. Giorgia Meloni, al rientro dalle vacanze, deve concentrarsi anche su questo aspetto, tutt’altro che secondario.

L’idea di un «super tecnico» non convince i big del partito della premier, che preferisce affidarsi ai fedelissimi invece di appaltare all’esterno una responsabilità delicata. L’opzione principale, che ora circola in ambienti di maggioranza, resta lo spacchettamento delle deleghe. Nello Musumeci, attuale ministro del Mare e della Protezione civile, ambisce a portare a casa anche il Sud, che però fa gola ad altri aspiranti ministri, come quello della deputata di FdI, Ylenia Lucaselli.

Per gli Affari europei il nome caldo nella cerchia di FdI è quello di Claudio Terzi, ex ministro degli Esteri nel governo Monti. Ma il groviglio più intricato è il ruolo di ministro del Pnrr e della Coesione. Uno dei profili più quotati dentro Fratelli d’Italia è l’attuale viceministro delle Infrastrutture, Galeazzo Bignami.

Ci sono, però, due controindicazioni: si aprirebbe una casella al ministero di Matteo Salvini, altrettanto difficile da rimpiazzare, e il dirigente di FdI si troverebbe catapultato nel ginepraio dell’attuazione del Piano con tutti i rischi annessi.

© Riproduzione riservata