Il ministro è l’uomo chiave per l’attuazione del Piano, sommando varie deleghe e accentrando numerosi dossier. Fra detrattori e (numerosi) estimatori a palazzo Chigi, ora coltiva il sogno di diventare un commissario europeo
Di Raffaele Fitto si nota la ritrosia alle interviste, non rilasciate da mesi, la circospezione sulle dichiarazioni, mai roboanti, per uno stile lontano anni luce dal coro ciarliero dei colleghi ministri. Certo, non significa arrendevolezza. Anzi. È stato lui, prima di tutti, a scaricare sui predecessori, leggasi governo Draghi, la responsabilità dei ritardi del Pnrr, che ha infatti riscritto quasi daccapo. La trattativa con l’Unione europea è andata in porto, con Piano che è sempre più fittiano e molto meno draghiano. Ma nel caso di naufragio del Recovery plan, il piano B è attivato: la colpa è degli altri.
Un passo felpato da consumato democristiano, in ossequio all’eredità del padre Salvatore Fitto, ex presidente della regione Puglia, e stella polare della cultura politica che lo ha portato ad abbracciare inizialmente la causa di Forza Italia. Fitto è la “quota anomalia” nel governo di Giorgia Meloni. Un personaggio a suo modo sui generis, ma comunque non è vissuto con fastidio né come un potenziale rivale dalla premier, sebbene la sua estrazione sia estranea a quella di Colle Oppio, dei Gabbiani che volavano sulla sezione romano del Movimento sociale italiano.
Fitto l’europeo
La presidente del Consiglio ripone massima fiducia nei confronti di Fitto: ha carta bianca come pochi altri. Nel governo c’è chi si spinge ad ammettere: «È il più capace di tutti». Dall’azione politica alla costruzione dei rapporti. Sta sicuramente portando avanti con pazienza il lavoro sul Pnrr, gira come una trottola per l’ottenimento delle rate. Che stanno arrivando. In ritardo, ma arrivano. Le rivalità interne non mancano. Con il sottosegretario alla presidenza, Alfredo Mantovano, gli screzi sono vecchi di decenni. La comune estrazione salentina non ha mai aiutato a cementare un vero rapporto. Il dualismo è stato smussato, ognuno si occupa del suo: evitano di rivaleggiare sui dossier per non aprire scontri. Diversa è la situazione con il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, che ha dovuto fare i conti con lo strapotere di Fitto: sulla gestione dell’ex Ilva è stata cancellata l’opzione-nazionalizzazione prospettata dal Mimit. Si fa come dice Raffaele, il viceré come lo definiscono con ironia sostenitori e detrattori.
Poco male. Il pedigree è generalmente apprezzato a Palazzo Chigi da molti altri colleghi. Tanto che ora si sta per proporre un problema, non proprio di secondo piano: Meloni potrebbe perdere Fitto da qui a qualche mese. L’unica via è di andare contro le intenzioni del ministro, che coltiva l’ambizione di diventare commissario europeo. Lo dice a pochi, ma in cuor suo ci spera. Anche perché a Bruxelles potrebbero richiederlo, perché lui e Giancarlo Giorgetti sono i nomi preferiti. Dopo le elezioni di giugno, bisognerà rifare la squadra e il profilo di Fitto è più che spendibile: ha avuto esperienze da europarlamentare, ha tessuto la rete per portare Meloni al vertice dei Conservatori e riformisti europei, non ha posizioni estremiste amate dai popolari. What else?
Non a caso Fitto aveva provato a lavorare per sé, mettendosi in proprio con il piccolo partito Conservatori e riformisti (richiamando il nome della famiglia europea), sfociato poi in Direzione Italia. I risultati sono stati quantomeno deludenti. Addirittura stava perdendo pezzi nella sua Puglia natia, come gli attuali parlamentari, a lui fedelissimi, Saverio Congedo e Ignazio Zullo che lo hanno anticipato nel trasloco a Fratelli d’Italia.
Quel dialogo con Salvini
E in realtà prima di andare alla corte di Meloni, Domani è in grado di svelare un retroscena inedito: Fitto aveva parlato con Matteo Salvini per avere un ruolo nella Lega. Erano negli anni in cui il leghista era all’apice della popolarità, sembrava destinato a una luminosa carriera verso Palazzo Chigi invocando finanche pieni poteri. Il dialogo era iniziato con un’idea avanzata da Fitto: diventare il punto di riferimento della Lega in tutto il Sud, dove il partito salviniano avrebbe dovuto radicarsi dopo aver abiurato il progetto padano. Un utile do ut des, dunque. Sul tavolo aveva messo la propria esperienza e la rete costruita, principalmente in Puglia, con l’obiettivo di tessere la tela altrove, dalla Campania alla Sicilia. La Lega, nelle intenzioni di Fitto, doveva essere il mezzo per uscire dal confinamento nella regione d’elezione. Salvini ha fatto le proprie valutazioni, ma ha respinto al mittente l’offerta. Il motivo è ignoto, di sicuro in quella fase l’appeal dell’ex berlusconiano era in fase calante. Alla fine, non se n’è fatto nulla. La resilienza, parola con cui ha familiarizzato nell’ultimo anno, è una dote che ha affinato. Fitto resta oggi uno dei pochi che ha sfidato a viso aperto la leadership di Berlusconi nel centrodestra, senza essere costretto alla damnatio memoriae, almeno in politica. Ne sanno qualcosa, tra gli altri, Angelino Alfano e Gianfranco Fini.
L’addio al progetto con Salvini ha portato a un’altra strada: l’avvicinamento a Fdi, seguendo l’esempio dei fedelissimi che avevano lasciato Direzione Italia per aderire al partito di Meloni. Fitto, dalla postazione di europarlamentare, si è messo all’opera per forgiare l’immagine europeista di Meloni e mostrare le sue qualità. Senza ottenere, anche in questo caso, alcuna esclusiva sul controllo del Mezzogiorno per Fratelli d’Italia.
Ha dovuto farsene una ragione. Ma l’operazione non è stata a ricavo zero. Tutt’altro.
Tutto intorno a lui
Oggi Fitto a Palazzo Chigi guarda - quasi - tutti dall’altro verso il basso ha un grande concentramento di potere: è ministro delle Politiche di coesione, che gestisce già una ricca dote di risorse, del Sud, che ha un peso specifico politico notevole, e degli Affari europei, che lo porta ad avere una dimensione internazionale. Ma soprattutto Fitto è Mr. Pnrr, l’uomo chiamato ad affrontare la sfida più importante per l’esecutivo di Meloni. E forse per l’intero sistema paese. Dalla corte dei conti all’ufficio parlamentare di bilancio, hanno sottolineato che l’attuazione del Piano è decisiva per il Pil italiano. Altro che manovra economica, insomma. «Ormai nel consiglio dei ministri è pari al sottosegretario Mantovano, che conserva sempre più un’aura di eminenza grigia», spiegano a microfoni spenti ambienti di governo. Qualcuno, anche tra i partiti alleati, non è stato felicissimo dell’operazione-accentramento portata avanti con il Pnrr. È tutto intorno a lui: come fanno notare le malelingue della maggioranza in parlamento. Questa sarebbe una delle ragioni che ha rallentato l’attuazione del Recovery plan. Ormai è diventata un’abitudine: portare l’azione in capo a un’unica struttura, che in qualche modo vede al vertice proprio Fitto.
Un esempio? Nel decreto Sud, appena approvato alla Camera, il ministro ha portato sotto la propria egida pure la gestione delle risorse per le politiche di coesione, scatenando le ire delle opposizioni. «Il provvedimento toglie risorse agli enti territoriali e le accentra ancora di più, peraltro, in un’unica struttura che, guarda caso, fa capo a lui», ha sottolineato il deputato del Pd, Ubaldo Pagano, parlando di «perversione di chi vuole sedersi su una montagna di soldi per decidere arbitrariamente quale territorio aiutare a crescere e quale invece punire, chiudendo i rubinetti». Fitto fa spallucce. Tanto che ha preso sotto la propria ala pure l’organizzazione dei Giochi del Mediterraneo del 2026. Voleva una nuova governance e ha ottenuto dei cambiamenti nel comitato, tagliando le unghie alla regione Puglia, presieduta dal rivale Michele Emiliano. Piccole scaramucce di territorio che sono funzionali all’allargamento dei poteri riservati al super ministro in odore d’Europa. Al prezzo di privare Meloni del pezzo pregiato della sua argenteria politica.
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