L’ipotesi: niente ballottaggio nelle città e premio di maggioranza nazionale con il 40 per cento. La premier attacca l’opposizione che «usa toni da guerra civile» e «evoca piazzale Loreto»
Il passaggio da predicare la stabilità dell’esecutivo ad auspicare la dittatura della minoranza può essere brevissimo: basta un brutto risultato alle elezioni amministrative.
A rompere gli indugi è stato il presidente del Senato, Ignazio La Russa, che lunedì ha sostenuto che il secondo turno sarebbe un meccanismo diabolico «inaccettabile», «una stortura che incrementa l’astensione» perché può ribaltare l’esito del primo turno. Lo ha seguito a ruota anche il responsabile organizzazione di FdI Giovanni Donzelli, che ha confermato al Corriere della sera che serve una «riflessione» su un «meccanismo che rischia di distorcere la volontà dell’elettore».
A piacere al centrodestra è un modello in particolare: quello del doppio turno siciliano, che prevede di andare al ballottaggio solo nel caso in cui nessun candidato ottenga il 40 per cento dei consensi. Prima era solo una suggestione, poi l’ha messa ufficialmente sul tavolo il deputato leghista siciliano Nino Minardo, suggerendo di «partire dal modello in uso in Sicilia, che non ha intaccato la logica dell’alternanza e ha limitato il ricorso al secondo turno quando l’affermazione di un candidato è comunque evidente».
La soglia del 40 per cento, in effetti, è un pallino del governo. Proprio questa cifra era stata scritta anche in una delle bozze della riforma del premierato, da inserire direttamente in Costituzione: chi supera il 40 per cento dei voti, ottiene un premio di maggioranza del 55 per cento. Poi l’idea – almeno quella di scrivere la soglia nella Carta – è stata accantonata, davanti alle proteste sia dell’opposizione sia dei costituzionalisti. Eppure nulla vieta che ritorni anche nella futura proposta di legge elettorale che la ministra delle Riforme, Elisabetta Casellati, ha promesso di discutere entro il prossimo ottobre.
Secondo fonti di maggioranza, del resto, l’idea di mettere mano ai ballottaggi già ronzava nella testa dei maggiorenti di tutti e tre i partiti, che non si sono mai trovati a loro agio con questo meccanismo, soprattutto nelle grandi città dove i ballottaggi favorirebbero – a loro dire – il centrosinistra che è più spesso frammentato, grazie alla confluenza al secondo turno di liste civiche e partiti più piccoli.
La minoranza vince
È così che, dopo l’esito poco rassicurante delle comunali, Giorgia Meloni è tornata sulla linea comunicativa che meglio le riesce: quella dell’underdog che andrà avanti con le sue riforme contro tutto e tutti. In piena sindrome da accerchiamento, ha descritto un’opposizione «con toni da guerra civile», che «evoca per noi piazzale Loreto, in pratica io dovrei essere massacrata e appesa a testa in giù» e contraria alle riforme «in una difesa disperata dello status quo, una condizione di privilegio che ha garantito alcuni a scapito della maggioranza degli italiani». Una maggioranza che, però, nei prototipi di legge elettorale più congegnali al suo governo, maggioranza non è.
Con una contraddizione ulteriore. Fino a oggi il mantra di Meloni con cui ha giustificato la riforma del premierato con elezione diretta del premier è stato quello di magnificare un presidente del Consiglio scelto dal popolo, senza più giochi di palazzo o marchingegni che truccassero gli esiti del voto. Paradossalmente proprio le leggi elettorali di comuni e regioni sono quelle che hanno dato il maggiore effetto di stabilità fino a oggi, con mandati di cinque anni. Le ragioni le ha spiegate il deputato Pd e costituzionalista Dario Parrini: «La legge per le comunali fu approvata con una larga intesa parlamentare e, fissando al 50 per cento la soglia di vittoria al primo turno, ha contribuito a garantire ai sindaci la forza e l'autorevolezza che derivano dal fatto di venire eletti a maggioranza assoluta e non a colpi di minoranza. Solo una soglia del 50 per cento rende legittimo, politicamente e giuridicamente, attribuire un premio di maggioranza come quello previsto per i comuni sopra i 15mila abitanti».
Per questo la risposta del Pd davanti alla proposta ormai più che chiara del centrodestra è stata negativa. Sulla legge elettorale per le politiche un confronto dovrà esserci, ammettendo che la riforma del premierato passi e dunque il sistema debba necessariamente cambiare, con un dibattito che deve necessariamente essere attivato a prescindere dall’eventuale referendum. Sulla legge per le comunali, invece, la segretaria Elly Schlein ha risposto con una battuta: «Non è che quando si perde si aboliscono le elezioni, non è colpa degli elettori se la destra ha perso». In altre parole, la tentazione di toccare ora una legge che fino a oggi non ha sollevato problemi né sul piano della governabilità né su quello della rappresentatività, ha solo il sentore della ripicca per un esito elettorale poco gradito.
Al netto delle percentuali e dello scontro politico, anche solo aprire il dibattito è il segnale di come il voto abbia messo in allarme il centrodestra, che ha reagito con il tic più scontato della politica della Seconda repubblica: infilarsi nel ginepraio delle riforme elettorali. Una tentazione a cui spesso ha ceduto anche il centrosinistra e che ha sempre portato sfortuna ai governi uscenti che si sono cimentati in una materia multiforme e con effetti mai preconizzabili.
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