La premier: «Non rispondiamo ai dazi con altri dazi. Niente rappresaglie». Non cita la difesa comune nella risoluzione. «Fuorviante parlare di riarmo». I leghisti le chiedono di dire più “no” a von der Leyen, che «gioca ai soldatini»
Per mantenere la pace in maggioranza la premier Giorgia Meloni ha deciso di lavorare di sottrazioni. Era da qualche mese che la presidente del Consiglio non si presentava in parlamento. E martedì, parlando ai senatori in vista del Consiglio europeo di giovedì e venerdì (mercoledì mattina si replica alla Camera), ha tirato le somme del suo posizionamento internazionale, ben attenta a rimanere in equilibrio sui precari puntelli a cui non intende rinunciare e senza infastidire troppo l’alleato leghista.
L’intervento di Meloni è apparso diviso in due parti: da un lato la questione della competitività europea, che sarà al centro del Consiglio e su cui la linea è quella di «non condannarci al ruolo di gregari», con l’Italia che chiede un «cambio di paradigma» a cui la Commissione «sta lavorando» ma che «va trasformato in atti concreti».
Dalla decarbonizzazione sostenibile per ridurre le dipendenze strategiche «coniugando obiettivi ambientali e competitività, ma rinunciando a derive ideologiche», al piano industriale per l’automotive; fino alla semplificazione degli adempimenti amministrativi perché «la politica deve tracciare la rotta, non la burocrazia» e al piano con misure urgenti per ridurre i prezzi dell’energia con citazione del Piano Mattei.
In queste riflessioni, nelle parole di Meloni hanno rieccheggiato almeno due dei punti elencati da Mario Draghi qualche ora prima, sempre a palazzo Madama, durante l’audizione informale sul Rapporto sul futuro della competitività europea: meno regolamentazione e riduzione dei costi delle bollette.
Il rapporto con gli Usa
Se la ricetta economica appare in linea con quella di Ursula von der Leyen, a mettere in crisi la maggioranza sono invece il piano di ReArmEu – contro cui la Lega si è espressa in modo netto e che Fratelli d’Italia invece ha votato – e i rapporti con l’America di Donald Trump.
«Il quadro è complesso», ha ripetuto più volte Meloni, come a mettere le mani avanti. Tuttavia la premier non ha cambiato di un millimetro la sua posizione internazionale, rimanendo convinta che sia possibile tenersi in equilibrio tra l’Unione europea (che Draghi ha descritto come «sempre più sola») e gli Stati Uniti. «Sono convinta che si debba lavorare con pragmatismo per un’intesa» e «scongiurare guerre commerciali che non avvantaggiano nessuno» ha detto.
«Non è saggio cadere nel circolo vizioso delle rappresaglie. Non rispondiamo ai dazi con altri dazi, no a reazioni di istinto ma usiamo la logica» è stato l’appello. Insomma, Meloni è ancora convinta che i dazi annunciati da Trump contro l’Ue, che penalizzerebbero in modo significativo l’Italia, possano ancora essere evitati e continua a muoversi per spegnere gli incendi accesi dal presidente americano con le sue dichiarazioni.
Di più, Meloni ha sintetizzato efficacemente la sua linea: chiederle di «scegliere tra Ue e Usa» è solo «strumentale a livello di politica interna» e «chi alimenta questa narrazione indebolisce l’occidente a beneficio di altri attori», ha detto rivolta alle opposizioni. «Non seguiamo acriticamente né i partner europei né quelli americani, anche dimostrando il dissenso perché la posta in gioco è troppo alta» è stata la conclusione.
Sempre in bilico tra i vari “non solo” e “ma anche”, anche sull’Ucraina Meloni ha ribadito il suo «totale sostegno» a Kiev e condanna dell’aggressione, anche se «l’invio di truppe italiane non è all’ordine del giorno e quello di truppe europee è una opzione rischiosa e poco efficace». Che fare allora? La proposta italiana è quella di dare garanzie di sicurezza all’Ucraina sul modello del trattato Nato, ma senza farla formalmente aderire. Diplomazia, insomma, che però per ora vede solo Russia e Stati Uniti seduti al tavolo.
Il nodo ReArm
Il nodo veramente difficile da sciogliere, però, è quello della difesa. Su questo gli interventi d’aula dei senatori leghisti sono stati più minacciosi che concilianti, nonostante Meloni abbia lavorato per sottrazione, ribadendo che parlare di riarmo «è fuorviante» perché «non si tratta di acquistare armamenti ma, nel caso, di produrli, e occuparsi di molte più cose rispetto al solo potenziamento degli arsenali». Inoltre, «aumentare la sicurezza non vuol dire toccare il welfare».
A picchiare più duro è stato Gian Marco Centinaio, che ha chiesto a Meloni di impedire a von der Leyen di «giocare ai soldatini, solo per avere un esercito che le dia quell’autorevolezza internazionale che finora non ha mai avuto», perché «se facciamo 800 miliardi di debito, saranno i nostri figli a pagarli».
Poi ha affondato il colpo contro gli equilibrismi della premier, che «ha spiegato quanto sia autorevole il governo italiano in Europa. Ma finora l’Unione europea ha danneggiato le imprese italiane». A rincarare la dose è intervenuto Claudio Borghi, che ha definito «follia» l’esercito comune europeo e «mi auguro che lei dirà dei no».
Remissiva la risposta della premier in corso di replica: «I soldi non ci sono, parliamo di una ipotetica possibilità che gli stati possano fare maggiore deficit. È un annuncio molto roboante rispetto alla realtà». Unica diplomatica puntualizzazione è stata che «l’esercito unico europeo non è all’ordine del giorno» ma «nel centrodestra c’è accordo sul fatto di rafforzare la sicurezza, perché è scritto nel programma». Un auspicio più che una certezza, visti i toni d’aula e il fatto che nella risoluzione comune del centrodestra non ci sia alcun accenno a una «difesa comune» ma contenga solo i 12 punti del vertice europeo.
La strategia, per Meloni, è quella di continuare a lavorare su più fronti. A livello interno, la necessità è quella di guadagnare tempo sulla questione del riarmo, gestendo il rapporto con la Lega ma senza rimangiarsi il sì al Libro bianco sulla difesa Ue di von der Leyen, con cui sono in corso trattative in materia migratoria. Sul fronte internazionale, invece, la scommessa rimane quella di uno scenario globale che veda un Donald Trump progressivamente meno ostile all’Ue, che riveda il suo piano di dazi in funzione di un nuovo equilibrio diplomatico. Due vie, però, sempre più strette.
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