- La premier da Vilnius parla, dopo sette giorni di silenzio, sulle tre vicende che hanno colpito il suo governo: critica il presidente del Senato sulla difesa del figlio Leonardo Apache: «Lo capisco bene da madre, ma non sarei intervenuta»
- Smorza i toni con i pm, ma si assume la maternità della «nota» anomima di Palazzo Chigi che accusava «una fascia della magistratura» di aver scelto «un ruolo attivo di opposizione». Quindi delle due, due: non apre un conflitto, ma sette giorni fa lo ha fatto.
- Esclude passi indietro della ministra, difende Delmastro. E attacca Domani e al suo editore Carlo De Benedetti.
«Non c’è alcuna volontà da parte del governo di aprire un conflitto con i magistrati», dice Giorgia Meloni dalla conferenza stampa di Vilnius, Lettonia, a margine del vertice Nato. Ma poi, su richiesta di un cronista, si deve assumere la maternità della «nota» di Palazzo Chigi che accusava «una fascia della magistratura» di aver scelto «un ruolo attivo di opposizione» e aver inaugurato «anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee». Quindi delle due, due: non apre un conflitto, ma sette giorni fa lo ha fatto.
Si contraddice, deve ostentare di non sapere quello che ormai la stampa ha dimostrato in abbondanza, per difendere i tre pasticci di governo – caso Santanchè, caso Delmastro, caso La Russa – che l’hanno inseguita per sette giorni su fino in Lettonia e in Lituania. Dice che sono tre casi distinti, fa una graduatoria di importanza, ma alla fine li blinda tutti e tre. Perché se cede alle ragioni della stampa e delle opposizioni, la credibilità del governo finirebbe travolta in uno schianto unico. I nuovi fatti che ha raccontato ieri il nostro giornale – la compravendita lampo di una villa in Versilia da parte dei congiunti di Santanchè e La Russa per una plusvalenza di un milione – rivela che i due, ministra e presidente, sono legati a doppio filo. E che insieme le hanno tirato un doppio pacco.
La premier si è presa sette giorni per organizzare una strategia di difesa. Quando inizia la conferenza stampa, magnifica a lungo il ruolo dell’Italia nel vertice Nato, ruolo centrale di cui non si ha altra traccia fuori dalle sue parole di autoelogio. Ma poi il momento della verità arriva, e invece è il momento delle contraddizioni e delle omissioni.
Meloni prova a scherzare ma è nervosa, chiede stizzita penna e carta come se le poche le domande sul tema la confondano. La difesa dei suoi avviene in ordine discendente. Primo, su Andrea Delmastro: non c’è nessuna guerra ai magistrati, sottolineatura che serve anche a raddrizzare il rapporto con il Colle. Eppure la guerra l’ha iniziata lei con la nota anonima del 5 giugno, il giorno dell’imputazione coatta del sottosegretario e delle comunicazioni di Santanché al senato. E quell’imputazione coatta sarà anche «giuridicamente lecita» ma la stupisce, è una «scelta che non avviene quasi mai». Delmastro è il primo intoccabile, «la questione è politica», i magistrati che dovranno decidere eventualmente il rinvio a giudizio sono avvertiti.
La questione Santanchè invece «non è politica», riguarda la ministra «come imprenditore». Lì il problema, dice, è che «in uno stato di diritto, chi è indagato non scopre dai giornali di esserlo». Aggiunge un attacco a Domani, che ha dato notizia dell’inchiesta, e al suo editore: ma è una linea di difesa concordata, lo hanno fatto i suoi in aula già la mattina.
Deve ostentare di ignorare che la ministra ha mentito al parlamento, sventolando un certificato di casellario giudiziario vecchio di mesi. E ha mentito anche a lei, se al momento della sua nomina a ministro, caldeggiata dal suo socio La Russa per interposta moglie e interposto fidanzato, l’amica Daniela non le ha detto di sapere che la procura di Milano ipotizzava la bancarotta fraudolenta della sua società Editoriale Visibilia. Non chiede le dimissioni di Santanchè: ma qui si fa scappare un sospiro che rivela un pensiero taciuto: un eventuale avviso di garanzia, dice «non determina le dimissioni di un ministro», il contrario di quanto ha sostenuto in precedenza, «a maggior ragione con queste modalità». Insomma, sono le «modalità» a costringerla a tenersi Santanchè: è ormai irrimediabilmente filtrata la sua arrabbiatura verso la ministra, e verso il suo protettore politico, ma non può mollarla per non dare ragione agli avversari. I due simul stabunt simul cadent. Di qui, la difesa di La Russa è un passo. Dovuto, inevitabile. Sulla ragazza che ha denunciato il figlio Leonardo Apache, il presidente ha detto che «lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni». La premier «da madre» comprende «bene la sofferenza del presidente del Senato». Ma non può rimangiarsi quel po’ di dichiarazioni fatte contro la violenza maschile quindi aggiunge che al suo posto «non sarei intervenuta sul merito della vicenda, tendo a sodalizzare con una ragazza che denuncia, senza pormi il problema dei tempi».
Così prova a tappare le tre falle della barca alla deriva, quella di un governo che ridimensiona i progetti del Pnrr, vede l’economia flettere, e anche i sondaggi, che subisce l’affondo delle opposizioni sul salario minimo. Il governo è infarcito di guai, lei non ha la libertà di espellerli, dovrà andrà avanti trascinandosi appresso i bubboni. Avvertendo la magistratura sul prosieguo. Se l’opposizione non sarà in grado di tenere alta la tensione, se ne riparla agli eventuali rinvii a giudizio, se mai arrivassero.
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