Dalle norme sui nuovi centri di permanenza per i rimpatri e sul trattenimento di 18 mesi alle altre iniziative del governo, come la missione navale europea o l’intesa con la Tunisia, l’impressione è che si tratti più di grida manzoniane che di interventi capaci di incidere in via strutturale sul tema dell’immigrazione
Nel consiglio dei ministri di oggi sono state approvate le norme straordinarie sui migranti. Da Giorgia Meloni ci si attendeva una reazione a fronte dei numerosi arrivi. E la reazione è arrivata dapprima con un video in cui la presidente del Consiglio ha preannunciato misure straordinarie, poi con la loro approvazione.
Giorni fa ne avevamo anticipato alcuni contenuti, rilevando una serie di criticità. Ma anche altre iniziative proposte da Meloni in tema di immigrazione sollevano dubbi.
Le nuove norme
Si prevede la realizzazione di nuovi Cpr, Centri di permanenza per i rimpatri. Il ministero della Difesa individuerà costruzioni dismesse o in disuso, come caserme o altri edifici pubblici, «in località a bassissima densità abitativa e facilmente perimetrabili e sorvegliabili», come ha detto Meloni.
La formula rimanda a luoghi di detenzione lontani dagli occhi di chiunque – sul modello Lesbo – ove verrebbero rinchiusi non solo migranti in attesa di espulsione, ma anche quelli appena sbarcati e sottoposti a procedure di frontiera accelerate, previste dal decreto Cutro (n. 20/2023) per chi proviene da stati inseriti nell’elenco dei cosiddetti paesi sicuri.
Inoltre, il periodo di trattenimento nei Cpr è fissato in 18 mesi, termine massimo consentito dalla cosiddetta direttiva rimpatri (2008/115/CE). Attualmente, la legge prevede un periodo di 45 giorni, prorogabile di 90 giorni e, in casi particolari, per ulteriori 45 giorni.
Le criticità
Nell’aprile scorso è stato dichiarato lo stato di emergenza in tema di immigrazione e nominato un commissario straordinario per fronteggiare «l’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti». Poi a maggio, nella legge di conversione del decreto Cutro, è stato previsto il «potenziamento» dei Cpr, da realizzare in deroga a ogni disposizione di legge. Evidentemente, queste misure hanno fallito gli obiettivi.
Ma anche aumentare il numero dei Cpr e il periodo di permanenza al loro interno non assicurerà maggiori rimpatri. Innanzitutto, senza mancanza di accordi con più paesi di origine, i migranti non possono essere rimandati al proprio paese. Inoltre, solo con l’espulsione mediante accompagnamento coatto si è certi del rientro in patria; mentre il mero ordine di lasciare l’Italia con mezzi propri – l’espulsione più praticata – si limita a intimare al migrante un periodo di tempo entro cui partire, cosa che raramente accade.
Ma il rimpatrio forzato è una procedura complessa e costosa (circa 8.000 euro a persona). Basti pensare che nel 2022 sono stati effettuati 3.275 rimpatri forzati, e al 31 agosto 2023 erano 2.293, nonostante il notevole aumenti di arrivi registrati quest’anno.
Inoltre, trattenere i migranti addirittura per un anno e mezzo costa molto e non serve a nulla, come dimostra anche un precedente. Nel 2011 il periodo all’interno dei Centri di identificazione e di espulsione (Cie) fu portato da sei a diciotto mesi dal governo Berlusconi.
Ciò non solo non determinò un miglioramento nel tasso di rimpatri, ma anzi produsse maggiore tensione all’interno dei centri. Perciò nel 2014 il tempo fu ridotto a 90 giorni. Se invece il periodo di trattenimento di 18 mesi nei Cpr ha solo finalità “punitive”, quindi di deterrenza dalle partenze, le relative norme rischiano di fallire nell’intento: niente ferma chi nel proprio paese starebbe peggio che nei Cpr.
Infine, il regolamento sulla procedura di asilo, nell’ambito del Patto europeo sulle migrazioni, su cui si è raggiunto un accordo nel giugno scorso, ha sancito procedure accelerate per valutare alle frontiere, cioè prima che le persone entrino nello stato, le loro domande di accoglienza.
Si tratta dello stesso iter disposto dal citato decreto Cutro, che il governo vuole realizzare trattenendo le persone nei centri di cui alle nuove norme. Ma la disciplina dell’Ue prevede che la procedura non duri più di 6 mesi. I 18 mesi del governo Meloni sarebbero, quindi, in contrasto con tale disciplina.
La missione navale
Gli arrivi dei migranti si fermano con «una missione europea anche navale se necessario, in accordo con le autorità del Nordafrica», ha affermato Meloni nel suo video. La missione ipotizzata presenta diversi problemi.
In primo luogo, l’accordo con i paesi africani vedrebbe il diretto coinvolgimento dei paesi dell’Unione nelle azioni volte a bloccare i migranti. Ma fermare imbarcazioni dove sono presenti potenziali richiedenti asilo equivarrebbe a respingimenti indiscriminati, vietati da norme internazionali (Convenzione sullo status dei rifugiati, Ginevra; Convenzione europea per i diritti dell’uomo), con una sorta di “complicità” ufficializzata dei paesi partecipanti alla missione. L’Italia è già stata condannata nel 2012 per respingimenti di massa (caso Hirsi Jamaa).
In secondo luogo, le navi di una missione europea di respingimento sarebbero comunque obbligate a soccorrere natanti in difficoltà, come quasi sempre sono quelli con migranti a bordo, e a portarli nel porto più sicuro, anche in Italia, in base alle norme sancite da Convenzioni internazionali. Altro che rimandarli indietro.
Gli accordi con la Tunisia
Meloni insiste sull’idoneità del memorandum con la Tunisia - firmato nel luglio scorso dal presidente tunisino Kais Saied e dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen - a bloccare gran parte delle partenze dall’Africa. Ma i dubbi sono molti.
Innanzitutto, il memorandum è un’intesa politica, e non un accordo giuridicamente vincolante, non essendoci stato un preventivo voto favorevole dei paesi dell’Unione.
In secondo luogo, i soldi promessi a Saied sono condizionati al rispetto di vincoli previsti nell’intesa, cioè potranno arrivare al dittatore solo a fronte di suoi impegni a realizzare progetti e riforme indicati nel memorandum. Peraltro, l’aspettativa che Saied blocchi i migranti, anche dopo aver ricevuto i fondi promessi, è molto fragile.
Nel memorandum è scritto che la Tunisia «non è un paese di insediamento per migranti irregolari», si impegna a «controllare solo i propri confini», non quelli dell’Ue, e riprenderà indietro solo migranti tunisini, e non altri. Inoltre, Saied aveva già affermato che la Tunisia non avrebbe fatto «da guardia di frontiera per altri Paesi».
Insomma, dalle nuove norme alle altre iniziative del governo, l’impressione è che si tratti più di gride di manzoniana memoria che di interventi capaci di incidere in via strutturale sull’immigrazione.
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