Da quando sono arrivati in parlamento, i Cinque stelle sull’elezione dei presidenti della repubblica sono passati dall’autonomia alla dipendenza.

Nelle due occasioni precedenti, sono riusciti a dettare la linea e rispondere alla politica dei partiti con dei candidati di livello, oggi rischiano di trovarsi solo a reagire alle decisioni di alleati e avversari.

Il Movimento 5 stelle, che è ancora la forza dominante in parlamento, ha perso così ogni possibilità di incidere sulla discussione che precede l’elezione, abdicando di fatto alla possibilità di sfruttare la sua forza numerica. 

Leader

La principale differenza rispetto alle elezioni di Giorgio Napolitano nel 2013 e di Sergio Mattarella nel 2015 è che quest’anno non è ancora sceso in campo Beppe Grillo.

L’ingombrante fondatore del M5s, che Giuseppe Conte ha cercato senza successo di mettere da parte nello scontro estivo tra i due precedente alla sua incoronazione, non ha ancora fatto sapere la sua e manca da Roma da molte settimane ormai.

A cavallo tra novembre e dicembre del 2021 il fondatore era atteso per un confronto con maggiorenti ed eletti, ma l’incontro non si è mai concretizzato, così come la visita della segreteria di Conte a casa del comico.

Non è da escludere però che Grillo si palesi nei giorni caldi della votazione, com’è avvenuto durante le trattative per la formazione del governo Draghi, in cui si è appropriato del ruolo di protagonista accompagnando i responsabili durante le consultazioni e costringendo il Movimento a un’inversione di rotta.

Nelle ultime due elezioni il Movimento era all’opposizione e il comico aveva giocato un ruolo importante anche nelle settimane precedenti al voto.

Grillo aveva infatti indetto le Quirinarie, una consultazione degli iscritti per scegliere il candidato da lanciare per il Movimento in una rosa composta da una decina di nomi proposti dall’assemblea dei gruppi parlamentari.

Candidati

Nel 2013, la prima scelta dell’elettorato Cinque stelle era stata la giornalista Milena Gabanelli, che aveva rinunciato alla candidatura, così come il secondo più votato, il fondatore di Emergency Gino Strada.

Grillo alla fine aveva ricevuto il consenso del terzo classificato, il costituzionalista Stefano Rodotà, un nome accettabile anche per la sinistra. La scelta di non votarlo aveva creato parecchio imbarazzo nel Pd. 

Nel 2015, i nomi della rosa proposta alle Quirinarie erano di nuovo di ispirazione progressista. Vi comparivano anche quelli di Pierluigi Bersani e Romano Prodi. Il risultato di quella consultazione aveva premiato Fernando Imposimato, allora presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione. In quel caso, però, l’asse con la sinistra non si era ricostituito: l’elezione fu decisa dall’allora segretario del Pd, Matteo Renzi, che aveva scelto Sergio Mattarella, non prendendo neanche in considerazione la proposta dei Cinque stelle. 

Oggi il Movimento 5 stelle fa parte della maggioranza e la gran parte dei maggiorenti di partito, a parte eccezioni come quella di Virginia Raggi, non vede più margini per coinvolgere gli iscritti al M5s per la scelta del nome Cinque stelle per la corsa al Quirinale. Senza la spinta propulsiva del fondatore, quello che è ancora il gruppo più numeroso in parlamento non è stato capace di indicare finora un proprio candidato. 

Conte ha vagheggiato diverse strade, passando dall’auspicare al Colle prima genericamente «una donna», poi identificata in una riunione interna nel nome di Silvana Sciarra, giudice costituzionale, poi ad azzardare un’apertura al passaggio al Colle di Mario Draghi. Qualche giorno dopo, è passato invece a incoraggiare una rielezione di Mattarella. Attualmente, nonostante una serie di altri confronti con gli eletti, la posizione di Conte non è identificabile.

L’unico aspetto su cui il presidente si è espresso con chiarezza è il rifiuto di trattare sul nome di Berlusconi: «Silvio Berlusconi alla Presidenza della Repubblica è per noi un’opzione irricevibile e improponibile. Il centrodestra non blocchi l'Italia. Qui fuori c'è un Paese che soffre e attende risposte, non possiamo giocare sulle spalle di famiglie e imprese», ha scritto sui social dopo la formalizzazione della candidatura del centrodestra.

Un messaggio che certifica l’incapacità del partito di maggioranza relativa nell’alleanza di governo di lanciare una propria candidatura. 

Comunicazione

Foto Mauro Scrobogna/LaPresse 20-04-2013 Roma Camera - manifestazione m5s a sostegno di Rodota' Nella foto: protesta dei sostenitori m5s davani alla Camera dei Deputati dopo l'elezione di Giorgio Napolitano Photo Mauro Scrobogna/LaPresse April, 04-2013 Rome m5s party supporting Rodota' In the photo: movimento 5 stelle supporter display banner

Con l’approdo al governo, è cambiata anche molto la modalità di trattare sul nome del prossimo presidente della Repubblica. Nessuno si sognerebbe più le manifestazioni degli eletti in piazza Montecitorio al grido di «Rodotà-tà-tà» o i post sul blog di Beppe Grillo dal tempismo sorprendente, come quello che stigmatizzava, a poche ore dalla sua elezione, il silenzio del futuro presidente Mattarella sulle morti causate in Sardegna dall’uranio impoverito. 

La comunicazione grillina aveva dipinto la scelta e la difesa dei candidati del 2013 e del 2015 come espressione un sentimento di purezza e di innovazione, la cifra distintiva della propaganda grillina contro la vecchia politica. Soprattutto nel 2013, quando erano ancora in corso le trattative tra il Movimento e il Pd, la candidatura di Rodotà era diventata il simbolo di un’apertura dei Cinque stelle al “recupero” del Pd. 

Di conseguenza, la decisione dei dem di tornare su Napolitano, rifiutando la mano tesa dei grillini, era stata veicolata all’esterno del palazzo come “inciucio della casta”. Fuori aspettavano i manifestanti convocati da Beppe Grillo: «È necessaria una mobilitazione popolare. Io sto andando a Roma in camper. Ho terminato la campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia e sto arrivando. Sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese». 

Nel 2015 la scelta di inserire Prodi e Bersani nelle quirinarie era apparsa qualcosa a metà tra una provocazione e un’apertura. Il professore non dispiaceva a Grillo e Gianroberto Casaleggio, ma alla fine nella votazione aveva avuto la meglio chi lo considerava “colpevole” dell’introduzione dell’euro, a cui i grillini in quel periodo erano ostili.

Bersani, invece, era il nome perfetto per avvicinarsi alla minoranza dem e spaccare il Pd. Alessandro Di Battista lo aveva proposto con una sfida: «Chissà che da capo dello Stato non possa mantenere la schiena dritta».

Strategie

Ma se nel 2013 c’era ancora una concreta possibilità che il Pd potesse prendere in considerazione una convergenza sul nome proposto dai Cinque stelle, nel 2015 la situazione era già diversa. Mentre nella prima occasione i Cinque stelle insistevano su Rodotà, i dem erano partiti con l’idea di rivolgersi innanzitutto al centrodestra per accordarsi sul nome di Franco Marini. La situazione era poi degenerata con uno stallo che aveva consumato sia Marini che Prodi: solo al sesto scrutinio la rielezione del presidente uscente aveva permesso di uscire dall’impasse, lasciando i Cinque stelle a bocca asciutta. 

Alla loro seconda elezione del presidente della Repubblica, i Cinque stelle partivano con un candidato illustre, ma non abbastanza da mettere i dem in difficoltà quanto era successo con Rodotà. La decisione di restare sul nome di Imposimato per tutte e tre le votazioni è stata però un’arma a doppio taglio, che li ha portati ad autoescludersi da una partita in cui Renzi alla quarta votazione aveva già i numeri che gli servivano, senza nessun bisogno di trattare con il Movimento. L’ironia della situazione era data anche dal fatto che i Cinque stelle avevano dovuto guardare una gran parte dei fuoriusciti dal Movimento votare per il presidente che non avrebbero voluto. 

Oggi, i parlamentari temono di essere condannati all’accettazione passiva delle decisioni del Pd. Nella nuova alleanza di centrosinistra in cui Conte ha collocato il Movimento, i Cinque stelle appaiono spesso l’anello debole: le trattative interne al partito non danno risultati, tanto che il presidente ha dovuto tremare prima di ottenere l’incarico formale della mediazione sulla scelta del capo dello stato.

Conte sta cercando di aprire anche canali alternativi con il centrodestra, ma l’impressione è che, invece di uscire sconfitti dal voto pur di insistere sul loro nome, questa volta i Cinque stelle possano finire per votare un candidato scelto da qualcun altro. 

© Riproduzione riservata