- Nel novembre 2007 Bassanini definì l'acquisizione di Antonveneta da parte di Mps la migliore operazione possibile.
- Undici anni dopo per Pier Carlo Padoan, ex ministro che l’ha salvata, presidente della banca che tratta per acquisirla, Mps è una storia di successo.
- Nel giorno delle dichiarazioni di Daniele Franco alla Camera, la storia di Siena attraverso le promesse tradite della politica.
Nella dissestata storia del Monte dei Paschi di Siena, la «banca più antica del mondo», come si ricorda in ogni articolo su Mps, ormai è difficile anche contare il numero di dibattiti politici sulla sua crisi, il numero di ministri che sono stati chiamati a dare spiegazioni e a cui la sera del 4 agosto 2021 si è aggiunto Daniele Franco, le dichiarazioni dei politici utili a intestarsi presunti successi o a scaricarsi molto meno presunte responsabilità.
La migliore operazione possibile
Quando nel 2007 Monte dei Paschi di Siena realizza la più scellerata delle operazioni finanziarie viste in Italia - l’acquisizione dell’Antonveneta al prezzo reale di oltre 17 miliardi considerando anche il debito che si porta in pancia, ma con in tasca l’autorizzazione “condizionata” della Banca d’Italia di Mario Draghi- le sue sorti magnifiche e progressive sono celebrate dal suo presidente Mussari e da tutta la politica locale.
Di fronte al prezzo dell’operazione, tale da far crollare subito il titolo in Borsa, Mussari rassicura che «sapremo estrarre tutto il valore da Antonveneta. È una bella partita, e noi la vinceremo...», ma non è il solo.
Il Pd senese che esprime tutti gli eletti plaude, così come plaude il sindaco diessino di Padova Flavio Zanonato. A Roma Franco Bassanini, ex ministro, futuro numero uno della Cassa depositi e prestiti e allora membro della direzione Pd si vanta con Panorama che lui quella operazione, «la migliore che potessero fare», l’aveva suggerita ben due anni prima.
Le sorti della banca sono talmente legate a quelle della politica che secondo Bassanini proprio i dissidi sul Monte dei Paschi di Siena con Massimo D’Alema sono costati la poltrona di presidente della Repubblica a Giuliano Amato, indimenticato elemosiniere di finanziamenti per il circolo del tennis di Orbetello al presidente di Mps, la presidenza della Repubblica.
Prima di capire realmente a quali sorti la banca stava andando incontro, però passano anni, la crisi finanziaria globale contribuisce a confondere le acque. Nell’ottobre 2011, a poche settimane dalla caduta del governo Berlusconi sotto la scure dello spread, l’ex direttore generale Antonio Vigni può ancora permettersi di dire: «Continueremo a essere focalizzati, anche in maniera maniacale, sul miglioramento del nostro assetto interno e industriale, in un' opera continua di aggiornamento alla ricerca di ulteriori spazi di efficienze e sinergie».
Poi sono arrivate le indagini della procura, anche basate sulle ispezioni di Banca d’Italia che al contempo però aveva permesso di contabilizzare i derivati nei bilanci non ai valori di mercato. Da allora le parole d’ordine della politica sono rimaste quasi sempre le stesse: tentativi di rimandare, minimizzare la crisi, allarmi per la protezione del prestigio della «banca più antica del mondo».
E infatti a Siena già dal 2012 ci si ingegna per mantenere il potere della Fondazione sull’istituto di credito pensando alla soluzione ricorsa anche negli ultimi mesi di una scissione che garantisca il controllo dell’istituto, anche se ridimensionato, e gli enti locali chiedono allora quello che oggi chiede la politica nazionale un rinvio delle operazioni di aumento di capitale o di risanamento, in quel caso per tutelare i bilanci della Fondazione.
Nel frattempo il nuovo management continuava a rassicurare. «C'è un rischio immagine per Mps. Con il lavoro attuale però torneremo ad avere la reputazione che ci meritiamo», diceva nel 2013 Alessandro Profumo, successore di Mussari alla presidenza di Mps, recentemente condannato in primo grado per false comunicazioni sociali proprio per i bilanci di Mps perché secondo la sentenza avrebbe contabilizzato le perdite in maniera non corretta proprio a cavallo del tentativo di vendita della banca da parte del governo Renzi.
Lo scontro con Monti
Quanto a responsabilità della politica, nemmeno a parlarne. Quando nel 2013 l’ex premier Mario Monti dichiara che nella questione Mps il Pd c’entra, Pier Luigi Bersani risponde che non c’entra nulla, Dario Franceschini chiede retoricamente «se è il primo ministro che abbiamo sostenuto», Stefano Fassina, allora responsabile economico del Pd, dice che non era la politica che influenzava la banca, ma la banca la politica. Alla fine Monti abiura: «Non volevo dire che il Pd c’entra». Non servirà ad aiutare le sorti della sua Scelta civica.
Quando Mps passa sotto la vigilanza della Banca centrale europea gli stress test del 2014 rivelano le condizioni disastrate della banca, ma la politica continua a usare le crisi per la propaganda tra episodi di umorismo involontario e continue rassicurazioni.
Nel 2015 viene chiamato a presiedere la commissione banche Pier Ferdinando Casini, che da genero di Caltagirone, socio di Mps, incontrava Mussari nei mesi precedenti all’acquisizione di Mps. Nel 2016 doveva essere «definitiva» la pulizia delle sofferenze del fondo Atlante secondo l’allora amministratore delegato Fabrizio Viola e definitivo il piano del governo Renzi, secondo l’ex ministro Pier Carlo Padoan. Nel 2017, con una variazione di spartito, poteva essere risolutivo il decreto salva banche da venti miliardi di euro, secondo Giuseppe Vegas, presidente della Consob.
«Le risorse per l'occupazione giovanile sono 15 volte più basse di quelle usate per ricapitalizzare Mps», si lamentò allora Massimo D’Alema.
Il governo Renzi ha dispensato ottimismo per anni: invitando a investire nella banca e assicurando a due mesi dal salvataggio pubblico in extremis su un aumento di capitale che si sarebbe potuto chiudere «il più presto possibile». Proprio Renzi diceva allora che «I politici devono stare fuori dalle banche, ma soprattutto che le banche devono aggregarsi»
Il suo ex ministro Pier Carlo Padoan qualche anno dopo eletto a Siena, e ora presidente di Unicredit che ha presentato l’offerta per Mps, lo deve avere preso alla lettera: le aggregazioni contano più di stare fuori dalle banche.
Durante il tour elettorale per aggiudicarsi un seggio da deputato alla Camera nel 2018, dalle lande della frazione di Serre di Rapolano, neanche 2 mila abitanti, l’allora ministro e attuale presidente di Unicredit non aveva dubbi su Mps, che definiva «una storia di successo» e una banca destinata a essere un elemento di «crescita forte per la realtà senese e italiana».
Ora se la trattativa tra il Tesoro che lui ha guidato e la banca che ora presiede sull’istituto che lui ha salvato andrà a buon fine lo potrà verificare dall’altro lato della porta girevole.
Tra questi fiumi di parole restano ancora oggi valide, a quattordici anni di distanza, le poche affidate da Rijkman Groenink, ceo di Abn Amro, al giornalista Alberto Statera a proposito del tentativo fallito di acquisire Antonveneta: in Italia «nulla è possibile senza la politica». Probabilmente anche Andrea Orcel, il banchiere che doveva stare lontano dalla politica, gli darebbe ragione.
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