- Al netto delle valutazioni politiche di questi giorni (soprattutto dell’opposizione di centrodestra), un dato è semplicemente falso: il Piano nazionale di ripresa e resilienza non prevede 17 miliardi per la sola parità di genere.
- Sono in realtà 4 i miliardi stanziati per le iniziative strettamente legate alle pari opportunità. Il resto dei 17 miliardi è diviso fra altre voci.
- «La parità di genere è stata inserita come quarto asse del piano, e questo non è irrilevante», dice Elisabetta Camussi, professoressa di Psicologia sociale, ex membro del comitato Colao. La sensibilità del governo sul tema non sembra però andare molto più in là di questo riconoscimento formale.
Per giorni, dopo aver letto l’ultima bozza del Recovery plan italiano, i parlamentari del centrodestra hanno denunciato lo scandalo: «Appena 9 miliardi per la sanità» e «il doppio per la “parità di genere”». E poi ancora: «Conte da manicomio! Diciassette miliardi per la “parità di genere” e solo nove per la sanità. La loro ideologia folle ci porterà nel baratro». La prima dichiarazione è del leader della Lega Matteo Salvini, la seconda di un deputato del suo partito, Edoardo Ziello. Al netto delle valutazioni politiche, un dato è semplicemente falso: il Piano nazionale di ripresa e resilienza non prevede 17 miliardi per la sola parità di genere. La cifra è destinata alla più larga missione “Parità di genere, coesione sociale e territoriale”, un contenitore piuttosto ampio di istanze fra loro molto diverse.
In questa macro-area, sono in realtà 4 i miliardi stanziati per le iniziative strettamente legate alle pari opportunità. Il resto dei 17 miliardi è diviso – quanto meno secondo la bozza del 6 dicembre – fra le voci “Giovani e politiche del lavoro” (3,2 miliardi), “Vulnerabilità, inclusione sociale, sport e terzo settore” (5,9 miliardi) e “Interventi speciali di coesione territoriale” (3,8 miliardi). Una serie di temi anche molto sensibili accorpati in una lista di varie ed eventuali.
Le raccomandazioni europee
Le iniziative a favore delle pari opportunità non rispondono a nessuna «ideologia folle», per citare il leghista Ziello, ma hanno un peso economico specifico. Secondo l’Istat nel 2019 il tasso di occupazione femminile si è attestato a poco più del 50 per cento, inferiore di quasi 18 punti percentuali a quello maschile. Negli ultimi due anni la Commissione europea ha sempre messo in evidenza questo problema nella raccomandazioni all’Italia, quelle stesse raccomandazioni di cui gli stati membri devono tenere conto per la stesura dei propri piani.
Nel 2019, nello specifico, dall’Europa sollecitavano il nostro paese a «sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro attraverso una strategia globale», in particolare «garantendo l’accesso a servizi di assistenza all’infanzia». Nel 2020 la Commissione ribadiva l’avviso: «È fondamentale l’integrazione nel mercato del lavoro delle donne e dei giovani inattivi».
Proprio intorno a queste due coordinate ruotano i programmi (per ora estremamente vaghi) raccolti sotto l’etichetta “parità di genere” nel Piano nazionale di ripresa e resilienza: interventi a favore dell’occupazione femminile e potenziamento degli asili nido. Obiettivi che non dovrebbero dispiacere nemmeno alla Lega, un partito il cui leader nel 2018 faceva campagna elettorale promettendo gli «asili nido gratis come in Francia».
«Quando si parla di misure che sono a favore delle donne non parliamo mai di misure solo per le donne. Parte di queste risorse vanno alle infrastrutture sociali, cioè ai nidi. Sono solo per le donne?», dice Elisabetta Camussi, professoressa di Psicologia sociale, ex membro del comitato Colao. E quindi 4 miliardi sono troppi, troppo pochi? «La parità di genere è stata inserita come quarto asse del piano, e questo non è irrilevante», aggiunge Camussi. La sensibilità del governo sul tema non sembra però andare molto più in là di questo riconoscimento formale.
Eppure la pandemia non ha colpito ugualmente uomini e donne. «Come nel 2008, la crisi attuale ha interessato di più il Mezzogiorno e i giovani, ma questa volta sono state soprattutto le donne, maggiormente impiegate nei servizi e in lavori precari, a subire gli effetti maggiori», ha detto il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo in un’audizione in parlamento a novembre. Tradotto in numeri: nel secondo trimestre del 2020 ci sono state 470mila occupate in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il calo si percepisce ancora di più guardando al tasso di occupazione femminile fra 15 e i 64 anni, sceso al 48,4 per cento nel 2020 contro il 66,6 per cento di quello maschile. Un risultato, lo dice ancora l’Istat, che colloca l’Italia al «penultimo posto della graduatoria europea, appena sopra la Grecia».
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