«L’assassino di Giulio Regeni si chiama Magdi Sharif. Lo ha seviziato provocandogli acute sofferenze fisiche in più occasioni. Con bastoni, mazze, strumenti affilati e taglienti». Dopo un’inchiesta giudiziaria resa quasi “impossibile” dal muro di gomma alzato dal governo di Abdel Fattah al Sisi, da depistaggi a catena e dalla mancanza di collaborazione dei magistrati del Cairo, l’inchiesta sulla morte del ricercatore triestino è a una svolta.

La procura di Roma dopo quasi cinque anni di lavoro ha chiuso ieri le indagini preliminari, e si prepara a chiedere il processo per quattro persone dell’apparato di sicurezza egiziano. Il documento dei magistrati è agghiacciante. Perché se da un lato fa il nome del presunto omicida, un maggiore classe 1984 che lavora alla National Security, e di altre tre persone accusate di sequestro di persona (il generale Tariq Sabir e i colonnelli Athar Kamel Ibrahim e Uhsam Helmi), contiene anche i racconti inediti di alcuni testimoni oculari che avrebbero assistito al rapimento e al massacro di Giulio.

Due fonti che hanno detto al procuratore capo Michele Prestipino e al sostituto Sergio Colaiocco di aver visto Regeni in mano ai funzionari del ministero dell’Interno, e di aver assistito alle atrocità subite dal dottorando dell’Università di Cambrige. Scambiato quasi cinque anni fa dagli agenti dei servizi egiziani per una spia straniera, un sobillatore nemico del regime.

Il rapimento

Secondo la ricostruzione dei pm, Giulio è stato prelevato il 25 gennaio 2016 nella metropolitana del Cairo, e ritrovato senza vita il successivo 3 febbraio, svestito e mutilato, in un fosso ai lati della Desert Road che collega la capitale con Alessandria. Il primo test-chiave, che i magistrati romani chiamano “Epsilon” per proteggerne l’identità e la sicurezza personale, rivela che il 28 o il 29 gennaio 2016 Regeni si trovava nell’ufficio numero 13 del palazzo chiamato “Lazoughly”. Secondo la fonte una «sede della National Security, che si trova all’interno del ministero dell’Intero».

«È una struttura in villa che risale ai tempi di Nasser che poi è stata sfruttata dagli organi investigativi...Quando viene preso qualche straniero sospettato di tramare contro la sicurezza nazionale viene portato in quella sede lì». “Epsilon” spiega di aver lavorato «per 15 anni nel luogo dove Regeni è deceduto...Era il giorno 28 o 29 gennaio 2016, ho visto Regeni in quell’ufficio, il numero 13, e c’erano anche due ufficiali e altri agenti. Io conoscevo solo i due ufficiali. Entrando in quell’ufficio ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone». Lo studente era nelle mani dei suoi aguzzini già da tre-quattro giorni, ma era ancora vivo. «Lui era mezzo nudo: nella parte superiore portava dei segni di torture e stava blaterando parole nella sua lingua, delirava. Era un ragazzo magro, molto magro...era sdraiato steso per terra con il viso riverso...l’ho visto ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra».

“Epsilon”, che ha rilasciato queste dichiarazioni lo scorso 29 luglio, nota anche dei segni di arrossamento dietro la schiena, forse causati da percosse con bastoni o altri oggetti contundenti. «Sono passati quattro anni, non ricordo bene. Non l’ho riconosciuto subito, ma cinque o sei giorni dopo ho visto le foto sui giornali, ho associato e capito che era lui».

La testimonianza è cruciale. Perché se dai maldestri tentativi di depistaggio (come il ritrovamento dei suoi documenti e oggetti personali nel covo di un gruppo di criminali comuni uccisi dalla polizia egiziana) era palese una responsabilità diretta delle squadre della morte del regime, è la prima volta che qualcuno conferma direttamente la loro partecipazione alle torture.

I magistrati hanno interrogato oltre cento persone e di queste sei fornito informazioni cruciali che inchioderebbero alcuni dei responsabili del massacro. Il maggiore Sharif innanzitutto, che «per motivi abietti e futili e abusando dei suoi poteri cagionava a Giulio Regeni lesioni, comportando la perdita di più organi, seviziandolo» e infine uccidendolo con «una violenta azione contusiva». Ma anche altri ufficiali, non ancora identificati, avrebbero partecipato alla mattanza.

Gomitate e complici

Anche gli altri tre indagati, Sabir, Helmi e Ibrahim, sono uomini degli apparati di sicurezza di al Sisi. Ibrahim attualmente è il numero uno della Direzione di sicurezza di Wadi al-Jadid e prima ancora è stato capo della polizia giudiziaria del Cairo. Pezzi grossi che, dopo la denuncia contro Regeni fatta da uno dei capi di un sindacato dei venditori ambulanti che sospettava inesistenti attività sovversive di Giulio, «bloccavano» il ricercatore «all’interno della metropolitana» e, scrivono i pm, «lo conducevano contro la sua volontà prima al commissariato di Dokki» e poi nell’edificio in via Lazoughly.

Una circostanza confermata da un altro test che dice di aver visto Giulio nella stazione di polizia di Dokki. I giudici italiani lo chiamato “Delta”. «Il 25 gennaio, al massimo alle 21, è arrivata una persona, aveva una barba corta...indossava un pullover...si esprimeva in italiano e ha chiesto di parlare con un avvocato o con il consolato: sono sicuro che si trattasse di Regeni. Poi è stato fatto salire su un’auto modello “Shain”, bendato e condotto in un posto che si chiama “Lazoughly”...un altro arrestato, che provava ad aiutarlo, ha ricevuto una gomitata al volto da un poliziotto».

Il massacro si è consumato per giorni, ma difficilmente gli indagati si presenteranno in aula: finora le autorità egiziane hanno negato qualsiasi addebito. «Al premier Conte e al ministro Di Maio chiediamo cosa stanno facendo per la verità su Giulio» ha detto ieri la madre di Regeni, Paola Deffendi. «I rapporti bilaterali con l’Egitto sono diventati sempre più amicali». Prestipino ha spiegato che la procura ha «fatto di tutto per accertare ogni responsabilità: lo dovevamo a Giulio e all’essere magistrati di questa Repubblica».

 

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