Nessun passo indietro in caso di sconfitta referendaria del premierato. Ma solo un addio alle riforme. Il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Tommaso Foti, ridimensiona le conseguenze della sfida lanciata dalla premier. E ammette che qualcosa non ha funzionato sul redditometro.

Sul premierato Giorgia Meloni ha detto «O la va o la spacca». È una scommessa stile Renzi, quindi di abbandono della scena in caso di sconfitta?

Non è stile di Renzi. È coerente con i presupposti della campagna elettorale.

Abbiamo fatto già un passo in avanti rispetto alle nostre intenzioni iniziali, visto che eravamo a favore dell’elezione diretta del capo dello Stato. Dopo un primo colloquio con le opposizioni, abbiamo pensato che l’elezione diretta del primo ministro fosse una strada essere in linea con la tendenza della sinistra.

Ma le opposizioni sono contrarie al premierato che delimita i poteri del capo dello Stato…

Il disegno di legge Salvi, ancorché facesse eleggere il premier dal parlamento, esautorava il capo dello Stato.

Abbiamo invece lasciato il presidente della Repubblica con la stragrande maggioranza delle sue prerogative e puntato a introdurre un’elezione diretta del premier.

E allora cosa vuol dire la frase di Meloni: «O la va o la spacca»?

Che o c’è la volontà di cambiamento dell’opinione pubblica oppure diventa difficile pensare a una stagione di riforme. Sono trent’anni che ne parliamo e non ne decolla mai una. Questa è anche la più succinta. Riguarda pochi articoli della Costituzione e interviene solo sulla forma di governo.

Quindi se si spacca la riforma, significa che viene archiviato qualsiasi tipo di cambiamento della Costituzione. Nessun passo indietro di Meloni…

Significa che finisce la stagione delle riforme, perché sarebbe difficile riproporre una qualsiasi forma di elezione diretta. Auspico, poi, che finita questa campagna elettorale, e non essendoci altre elezioni di impatto nazionale, i grandi oppositori possano convenire che si tratta di una riforma equilibrata. Così da accompagnarla con una riforma elettorale altrettanto equilibrata e chiara.

Aspettate la convergenza di Pd e Cinque stelle?

I Cinque stelle ne fanno un cartello del “no a tutto”. Sorprende la posizione del Partito democratico, che in passato aveva pensato a una riforma sul modello del semipresidenzialismo francese. Ora c’è un’opposizione pretestuosa all’elezione diretta del premier.

Al Pd non piace la regola per cui si torna al voto dopo la caduta del premier. Siete disposti a cambiarlo?

Il simul stabunt simul cadent è alla base della democrazia. In Spagna, si è dimesso un premier che non è stato sfiduciato ma ha perso le elezioni regionali.

Ma è stata sua scelta, non una norma costituzionale che lo obbliga.

Ritengo che se vi è un’impossibilità di una maggioranza a sostegno di un premier, è giusto che lo scelgano gli elettori. Non i giochi di Palazzo, non le conventicole.

In sintesi: alla Camera siete disposti a modificare il testo che uscirà dal Senato?

La controparte ne fa una battaglia, dicendo di fare da scudo umano a queste riforme. Penso che sia chiuso ogni canale. Resto stupito della cecità di fronte a un sistema che non avvantaggia né il centrodestra né il centrosinistra. Le riforme non vengono fatte per dare dei vantaggi, ma per dare dei governi che abbiano stabilità.

Franceschini ha detto che la riforma converrebbe al Pd, ma che non è opportuna farla…

Non è una riforma che viene fatta contro qualcuno. Dietro mi sembra ci sia piano politico di fare un muro contro muro, per unirsi. Sul resto ognuno dice il contrario dell’altro e cercano il cartello dei no per mettersi insieme. Ricordo che con i “no” si fa poca strada.

L’orizzonte temporale per l’approvazione e l’eventuale referendum è quello del 2026?

Andremo avanti secondo il calendario dei lavori parlamentari che viene definito di volta in volta in ragione delle urgenze dei provvedimenti. E se proprio non ci sarà una possibilità di trovare una maggioranza più ampia, per raggiungere il quorum necessario a evitare il referendum, non abbiamo paura del voto degli italiani. Anzi noi lo abbiamo anche sollecitato, anche quando altri (il Movimento 5 stelle, ndr) sono stati prima alleati con la Lega, poi con il Partito democratico e infine con Lega e Pd insieme.

Oltre al premierato, si parla ancora di redditometro. Non lo volevate, come maggioranza, eppure era stato introdotto dal viceministro Leo. Cosa non ha funzionato davanti a un decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale e sospeso in 24 ore?

Probabilmente non hanno funzionato due cose: l’informazione e la comunicazione. Ma è certo un principio: per combattere gli evasori totali o i grandi evasori bisogna avere gli strumenti tecnici. Sarebbe una follia, invece, andare a vessare il cittadino. Abbiamo voluto una riforma fiscale per migliorare il canale burocratico: il fisco non deve dare la caccia al contribuente, ma serve un rapporto cooperativo.

In queste ore è acceso lo scontro tra Meloni e Schlein. La segretaria del Pd ha definito la presidente del Consiglio di essere una patriota che divide l’Italia, dal premierato alla Rai. Di sicuro non c’è un clima da patria unita. Cosa pensa?

Schlein ha diviso anche il Pd.

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