- Quando perdi in malo modo la reazione dovrebbe caricarsi di rispetto verso la tua comunità, le persone in carne e ossa, militanti, iscritti, chi ci ha creduto nonostante tutto. Questo sentimento non lo sento e a me non pare un problema da poco.
- La struttura che il Partito democratico si è dato all’atto della sua fondazione non ha più fondamento e senso. Questo implica per forza anche il fallimento del “progetto”?
- Il punto è che su alcune battaglie abbiamo persa credibilità. Non basta correggere il tiro e dire adesso a gran voce salario minimo e una mensilità in più o contrastare delocalizzazioni selvagge. Devi anche tornare nei luoghi dove quel conflitto non è scomparso e vive in forme che a lungo non abbiamo saputo assumere e tutelare.
«Scioglietevi!». Così, secco, il direttore di questo giornale. A ruota una chiosa di Filippo Andreatta ruvida e sincera: se possibile levatevi di torno tutti voialtri reduci dai Ds o Margherita e che avete sbattuto il Pd contro un muro. Lasciate spazio a qualcosa e qualcuno che sappia aggregare il tanto di buono fuori da lì oppure scindetevi, ma per davvero una buona volta: la sinistra da una parte e moderati e liberali dall’altra.
Funziona? Non mi convince e vorrei dirne il perché. Con una premessa. Nelle sconfitte, soprattutto se drammatiche e questa lo è, c’è sempre qualcosa di solenne. Di epico persino. Per dire, la data simbolo del nazionalismo serbo origina da una disfatta, non da un Arco di trionfo. Ma non divaghiamo.
Resta che quando perdi in malo modo, e tanto più se a salire sul podio è la destra peggiore, la reazione dovrebbe caricarsi di rispetto verso la tua comunità, le persone in carne e ossa, militanti, iscritti, chi ci ha creduto nonostante tutto. Ecco, questo atteggiamento, questo sentimento, non lo sento e a me non pare un problema da poco.
La corsa a candidarsi – quel dire “ragazzi, io ci sono” – senza un attimo di pausa, senza guardarsi negli occhi e capire, ascoltarsi, scavare in un risultato che fa male dentro, temo sia il riflesso di un individualismo penetrato tra noi. Qualcosa che rischia di farci precipitare dal limite serio di una sconfitta nel rituale vaudeville dei gazebi.
L’alternativa? Anche per quella camminiamo sul filo della retorica nel senso di formule logorate dal tempo e dall’uso. Cambiare o morire, rifondare tutto, sino al top della rottamazione sotto altri battesimi: per ciascuno degli appelli ho memoria di precedenti a volte stucchevoli. L’invito a ribaltare il tavolo, innovare per non perire, è servito spesso a sostituire il capotavola salvo riprodurre una ricetta identica. Tutto ricominciava da capo senza aggredire una che fosse una delle cause di divorzio tra la sinistra e il resto. Che poi, questo almeno dovremmo averlo capito, il fossato si allargava non solo a opera di chi pro tempore impugnava lo scettro. Ecco, parrebbe ragionevole in questo dopo voto scansare lo stesso abbaglio.
Una forma senza senso
Detto ciò, la vedo così. Il “soggetto” inteso come la forma, la struttura, che il Partito democratico si è dato all’atto della sua fondazione, correva l’anno 2007, non ha più fondamento e senso. Diciamo che non ha retto l’urto del cambio di scena.
Quel modello pensato in epoca bipolare con l’ambizione di indurre pure la destra a una stagione bipartitica si è inceppato con l’irrompere della grande crisi, quella che per quasi quindici anni ha scosso e poi esacerbato l’animo della classe media aprendo la strada a forze e movimenti capaci di scalare vette del consenso approdando al governo con la stessa rapidità del successivo congedo.
L’instabilità del quadro politico ha certificato la fine di quell’ipotesi – due grandi partiti a competere per il potere – e l’altalena di soluzioni “tecniche” ha consentito a un soggetto (noi) privo di una chiara ragione sociale di mantenersi periodicamente alla guida di ministeri e posti chiave seppure in assenza del mandato popolare a farlo. Bene, anzi male.
“Soggetto” e “progetto”
Ma ammesso l’errore la domanda è un’altra: il venir meno del “soggetto” implica per forza anche il fallimento del “progetto”? Dell’idea che in origine ne ha ispirato la nascita? Rispondo di no, che non è così. E se un difetto vedo nell’invito più o meno generoso a scioglierci (ma in cosa poi?) è proprio nell’errore di sovrapporre “soggetto” e “progetto” facendone un’unica merce avariata e da buttare a vantaggio di «qualcosa di completamente diverso» (e questa, per i cultori del genere, è citazione dai Monty Python).
In sintesi, ho visto che la linea “solubile” è condivisa da parecchi. Penso però che dobbiamo essere rigorosi verso noi stessi, e al contempo non buttar via un patrimonio di umanità, valori e consenso che vale all’incirca il 20 per cento delle urne.
Quando Achille Occhetto superò il Pci lo fece spinto da ragioni storiche, politiche, culturali. Vale a dire strategiche. In quel modo la sinistra, o parte di essa, non finì sepolta sotto macerie per altro, nel caso nostro, alquanto immeritate.
Facendo i debiti distinguo, noi abbiamo il dovere di leggere questo tempo e questo mondo a partire dalla rivoluzione che lo ha investito. Quella digitale ha trasformato sistemi di vita, modi del consumo, della conoscenza, delle relazioni umane e sociali. Dobbiamo assumere i temi della paura, di insicurezze e inquietudini, compresa un’assenza percepita di futuro, come centrali, discriminanti, per alcuni miliardi di persone sulla terra, e milioni di famiglie in casa nostra.
Con un’aggiunta. Che da soli questo confronto non siamo in grado di farlo, il che non equivale a rinunciarvi. Però bisogna sapere che paghiamo errori e arroganze (Jobs act e articolo 18, il taglio della rappresentanza, una legge elettorale oscena). Ma se ti porti in groppa quelle zavorre non puoi traversare il temporale restando asciutto. E allora non basta un buon programma con i contenuti calibrati a sinistra (per inciso questa volta lo avevamo!).
Il programma non basta
Conta chi quel programma lo racconta e la lingua che usa. Conta se appari, perché lo sei, credibile agli occhi dei tuoi riferimenti. E conta molto perché gli elettori della sinistra sono esigenti, lo sono per natura e formazione. Se sbagli e ti correggi lo capiscono e molte volte lo hanno perdonato. Ma se spezzi il legame di fiducia che avevi con loro devi avere l’umiltà di riconoscerlo perché è la premessa per riconquistarli.
Il punto è che su alcune battaglie quella credibilità noi l’abbiamo persa. In tanti, troppi, ci hanno detto “non ci avete più visto”. E allora non basta correggere il tiro e dire adesso a gran voce salario minimo e una mensilità in più o contrastare delocalizzazioni selvagge. Devi anche tornare fisicamente nei luoghi dove il conflitto tra interessi e classi (sì, “classi” perché esistono ancora, non sono evaporate nel cloud), dicevo, tornare nei luoghi dove quel conflitto non è scomparso e vive in forme che a lungo non abbiamo saputo assumere e tutelare.
Quanto a finirla con l’anteporre le battaglie sui diritti civili alle altre, Stefano Rodotà ci ha insegnato che quei diritti sono indivisibili e camminano o retrocedono assieme. «Mamma ho sete», le ultime parole della creatura di due anni morta nel cuore del Mediterraneo dopo dieci giorni senza un sorso d’acqua potabile o l’adolescente bullizzato per il suo orientamento sessuale sono i tratti della civiltà di un paese e dell’Europa. Stanno assieme a bollette, redditi, precarietà e autonomia nelle scelte su quando dare la vita e come lasciarla se privati della propria dignità. Lo pensavo prima e lo penso ora.
E allora ripartiamo da qui e se alla fine del cammino dovessimo convincerci che, invece, bisogna cambiare tutto (compresi nome e simbolo) lo si potrà pure fare, ma i palazzi si costruiscono dalle fondamenta. Se parti dal tetto non funziona. Anche perché un edificio senza copertura quando piove finirà allagato, e noi oggi abbiamo l’acqua in casa. Ma un tetto senza nulla sotto semplicemente non esiste.
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