La settimana di Atreju ha messo in scena il solito vittimismo nei confronti di una società in cui domina il politicamente corretto. Peccato che ci denuncia questa “deriva” sono coloro che possono dire tutto, in qualsiasi contesto, alla radio, sui social, in parlamento, in tv, sui giornali
«Uno di noi, Cruciani uno di noi», cantano i volontari di Atreju, mentre il conduttore della Zanzara, occhiali fumé d’ordinanza, anelli vistosi, gira tra i ragazzi del servizio d’ordine per scattare foto. «Ora non esageriamo», dice sorridendo, facendo segno alla folla impazzita di stare calma, tra un «libertà» e altri cori indecifrabili ma riconducibili al lessico zanzariano.
La febbre del sabato sera, nell’ultimo evento prima dei saluti domenicali di Giorgia Meloni a chiusura della kermesse di Fratelli d’Italia, ha infiammato gli avventori del villaggio natalizio sulle note scatenate dei polemizzatori di professione.
Nella festa dell’Unità del sottosopra di Stranger Things, sfilando tra cartelloni fatti con l’intelligenza artificiale in cui si ipotizza un mondo inventato dalla sinistra dove a dominare sono le toghe rosse, Lilli Gruber, la farina di grillo e i bagni inclusivi, si arriva alla sala Cristoforo Colombo, dove poche ore prima di Cruciani ha parlato il presidente dell’Argentina. «Milei lo hai sentito? È un grande, un ragazzo davvero unico», dice qualcuno, mentre alla radio di Atreju qualcun’altro canta Georgia on my mind, «e chi manca domani è comunista!», aggiunge lo speaker, invitando gli avventori a non perdersi il gran finale.
Realtà e rappresentazione
È stata una settimana intensa per gli atrejani, tra un intervento di Conte, Cicalone e Angelino Alfano la voglia di divertirsi si fa sentire. E cosa c’è di più divertente, liberatorio e catartico di una sala in cui poter finalmente dire tutto ciò che si pensa senza nessuno che ci rompa le scatole?
L’incontro Politicamente Scorretti, uno show di Giuseppe Cruciani, Federico Palmaroli, in arte Osho, Claudia Fusani, usata come quota specie protetta, il tutto moderato dall’incontenibile entusiasmo di Giovanni Donzelli, è la trasposizione live action di un post polemico su Facebook spacciato per dibattito sulla libertà d’espressione, l’apice di un intrattenimento vannacciano che rompe le catene invisibili – oltre che immaginarie – del «non si può più dire niente».
A non poter più dire niente, come sempre, sono le persone che dicono tutto, in qualsiasi contesto, alla radio, sui social, in parlamento, in televisione, sui giornali, nei panel organizzati per dare prova al mondo che cantare «benvenuti a ‘sti frocioni» in coro in una sala intitolata a un esploratore genovese è un atto di coraggio, oltre che di libertà.
La parola «libertà», difatti, è la più pronunciata in questo contesto in cui Fusani passa da agnello sacrificale con poche idee, tutte piuttosto confuse. Perché per non riuscire a controbattere alla teoria di Donzelli secondo cui la violenza di genere esiste a causa del fatto che i ragazzi ascoltano la trap «dei centri sociali» e non per «il nonno patriarcale», ci vuole davvero molto impegno.
Del resto, Lazza, Tony Effe, Geolier, Sfera Ebbasta, li abbiamo visti manifestare negli spazi occupati delle nostre città, con la Tesla e i Rolex d’oro, per non parlare dei cortei di sinistra, che senza l’autotune e il permesso dei bro non cominciano proprio. Insomma, la libertà è libertà anche di inventare cause immaginarie a problemi concreti, invertendo le gerarchie tra realtà e rappresentazione, oltre che libertà di poter essere politicamente scorretti. Anche se, e questo è un problema che va ben oltre la pista da pattinaggio di Atreju, è sempre meno chiaro che cosa si intenda con questa espressione feticcio del presente.
Shitstorm e viralità
Se prendiamo, ad esempio, le vignette di Osho, possiamo facilmente dedurre che la sua idea di politicamente scorretto, nonché quella del pubblico che scoppia in fragorose risate liberatorie a ogni passaggio di immagine, coincida perlopiù con la trivialità.
Chiara Ferragni che dice a Fedez di «pijarlo ar culo» da Rosa Chemical, i bronzi di Riace che vorrebbero approfittare delle grazie della Spigolatrice di Sapri, un gruppo di persone presumibilmente di etnia rom che si lamenta della merce scadente nei cassonetti romani.
Palmaroli porta le slide dense di un’ironia degna della porta di un bagno della scuola media in supporto del fatto che, al giorno d’oggi, questi pregiati espedienti comici generano indignazione, a riprova della teoria secondo cui sì, siamo in una dittatura del politicamente corretto, dove a comandare è la sinistra.
A questo ragionamento così gettonato, al pari del «e se fosse successo a sessi invertiti» più volte sbandierato da Cruciani, purtroppo, nessuno sul palco riesce a controbattere, nonostante Atreju si vanti sempre di invitare anche il contraddittorio.
Nessuno infatti fa notare a Palmaroli, così come a Cruciani e Donzelli, che dal momento che esistono i social network, e di conseguenza la possibilità di commentare qualsiasi testo ci si trovi davanti, che sia la Divina Commedia o un fotomontaggio di Osho con il papa che parla della «frociaggine», esiste anche il fatto che i prodotti culturali contemporanei – alti, bassi, intelligenti, demenziali e offensivi che siano – vivano di questo. Vivono di shitstorm, di viralità, di opinioni non richieste, di chi si offende, chi si diverte, di cuori, emoji, pollici in su e pollici in giù, di fiumi inarrestabili di dibattiti aperti che tendono all’infinito.
Un’arma potentissima
Il punto non è negare l’esistenza di una sensibilità frammentata e difficile da inglobare in qualsiasi sua manifestazione per fare sì che nessuno, mai più, si offenda per niente: ci ha pensato il critico letterario e docente universitario Mimmo Cangiano con il suo saggio Guerre culturali e neoliberismo a fare un’analisi approfondita di questo fenomeno del presente, soprattutto all’interno di alcuni movimenti di sinistra, in particolare quella delle università americane, e di come la creazione di spazi confortevoli – online, sul posto di lavoro e via dicendo – soddisfi un bisogno di agency che non riusciamo ad applicare negli spazi pubblici non più modificabili per azioni collettive.
Il punto è, semmai, rendersi conto che scambiare l’interazione social, ossia l’oceano di opinioni che riversiamo ogni giorno sulle piattaforme, per un dibattito in cui viene decretato cosa è giusto e cos'è sbagliato, cosa si può fare e cosa no, è forse il più grande abbaglio del contemporaneo: come se un hashtag o una valanga di commenti negativi fossero la realtà e non la conseguenza del fatto che, con internet, ci siamo disgraziatamente trovati tutti e tutte nello stesso posto, decontestualizzati e disintermediati.
Ma è anche la ragione per cui, in un’ora di schiamazzi donzelliani che inveisce contro chi non gli consente di fare il presepe – chi? – ed elogia gli omosessuali di FdI che non si offendono se qualcuno dà loro della «f-word», mentre dice che i rom rubano – applausi – e che la Biancaneva non-bianca di Disney è una vergogna – qualcuno gli spieghi come funzionano le indagini di marketing, qualcuno gli spieghi tutto, insomma –, ciò che viene fuori è che viviamo in una dittatura del pensiero unico. E questa sensazione, basata su termini astratti e sovrastrutturali, è un’arma potentissima per chi vuole usarla.
Pensiero dominante
Quando Cruciani dice che la colonna portante del mondo è la famiglia tradizionale perché senza due genitori eterosessuali non si fanno figli (ed è esattamente così che procede la maggioranza del pianeta), al pubblico di Atreju, nonché ai suoi fedeli ascoltatori, viene presentato come se la minaccia fosse l’inversione di questo dato di fatto, piuttosto che l’inclusione di istanze minoritarie.
Le fiction «piene di omosessuali» a cui inneggia Donzelli, l’accusa di razzismo a Una poltrona per due, il modo di rappresentare qualcosa che sia altro dalla maggioranza è percepito come una privazione di un diritto che già esiste, e che nessuno tocca. Ed è curioso che proprio la difesa di qualcosa che è già protetto e consolidato venga fatto passare per politicamente scorretto, in quella logica da Mondo al contrario che si nasconde goffamente dietro alla dialettica elementare del cosiddetto gatekeeping: difendere lo status quo dall’invasione del nuovo, che sia un nuovo colore di pelle, un nuovo modo di essere genitore, coppia, o un nuovo cartone animato – tranquillizziamo Donzelli, potrà comunque vedere la vecchia Biancaneve su Disney+, nello streaming c’è spazio per tutte le categorie di consumatori tracciabili.
«Una volta il politicamente scorretto era a sinistra», dice Cruciani, «ora è a destra che uno ha la libertà di dire quello che vuole perché la gente si è rotta il cazzo», continua. Per quanto grossolano sia il sentimento su cui fa leva un personaggio come Cruciani nella sua ribellione alla Pierino per cui la libertà passa per il poter dire le parolacce alla maestra, una fase freudiana che si presume l’essere umano possa superare una volta ottenuta la licenza media, ciò che raccoglie in quei ragazzi che lo venerano sotto al palco, così come nelle persone che hanno votato e votano FdI o Lega per motivi affini, è un pensiero diffuso, strisciante e, in questo caso sì che vale la pena dirlo, dominante.
Ogni espressione culturale, anche la più becera, è sintomo di qualcosa che avviene a livello strutturale come società e come collettività: se negli Stati Uniti i giovani si sono radicalizzati a destra anche grazie a spazi di dibattito molto simili per forma e contenuto alla Zanzara, dove le parole d’ordine sono free speech e libertarismo indistinto, ciò che avviene da noi, in forma masticata e digerita, ha tratti simili e conseguenze sovrapponibili.
È da tempo che la sinistra italiana ha smesso di interrogarsi sui fenomeni di massa, sminuendo il valore della televisione, prima, e di tutto quello che è arrivato dopo, comprese le manifestazioni parossistiche di una cultura che oggi domina facendo credere di essere sotto minaccia.
L’unica forma in cui presidia, a eventi simili, dove si alimentano eserciti pronti a combattere in nome di battaglie già vinte, è nei cartelloni di Atreju, tappezzati di frasi contro Schlein, Salis, e qualsiasi altro simbolo venga percepito come sovvertitore di uno status quo che, al contrario di quanto dicano i politicamente scorretti, se la passa benissimo.
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