- La foto che l’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio invia alla madre alle 8.25 del 22 febbraio 2021, un’ora e mezza circa prima dell’agguato che avrebbe decretato la sua morte, immortala il diplomatico e la sua guardia del corpo apparentemente sorridenti e tranquilli.
- Se Attanasio e Vittorio Iacovacci hanno accettato di partire in quelle condizioni è perché avevano ricevuto ampie rassicurazioni dai dirigenti del Pam sulla sicurezza del viaggio.
- Un anno dopo siamo ancora ai blocchi di partenza. Buio fitto riguardo ideatori, movente ed esecutori dell’omicidio. Si è passati dall’ipotesi della semplice rapina finita male, al tentativo di rapimento a scopo di riscatto.
La foto che l’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio invia alla madre alle 8.25 del 22 febbraio 2021, un’ora e mezza circa prima dell’agguato che avrebbe decretato la sua morte violenta, insieme a quella del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista congolese del Pam (Programma alimentare mondiale) Mustapha Milambo, immortala il diplomatico e la sua guardia del corpo apparentemente sorridenti e tranquilli in procinto di entrare nella macchina senza armatura che si vede alle loro spalle. Sono di sicuro consapevoli che viaggeranno su un’autovettura normale e che non usufruiranno della scorta che in quel tipo di missioni viene generalmente fornita, se richiesto, dalla Monusco, la forza di interposizione Onu.
Sembrano ugualmente sereni, pronti a partire (il convoglio di due macchine con sette membri a bordo avrebbe lasciato Goma intorno alle nove) per una missione che non sarebbe stata certo una passeggiata fuori porta, ma neanche un viaggio irto di rischi letali.
Eppure l’ambasciatore conosceva molto bene quella zona per averla visitata varie volte dall’inizio del suo mandato a Kinshasa nel 2017, sapeva bene che il Kivu è uno degli angoli più pericolosi al mondo. Che nella strada che da Goma porta a Rutshuru, meta della missione che avrebbe dovuto ispezionare un progetto Pam finanziato dall’Italia, avvengono rapimenti, stragi, violenze e scontri tra oltre 150 milizie in azione, alcune al soldo dei vicini Ruanda e Uganda, all’ordine del giorno.
Erano consapevoli del fatto che alcuni osservatori americani parlavano di «un’allerta terrorismo», come riferisce il cancelliere contabile della nostra ambasciata a Kinshasa, Saro Castellana, inviato da Attanasio a un briefing di capi missione Ue qualche giorno prima.
Le rassicurazioni sul viaggio
Se Attanasio e Iacovacci hanno accettato di partire in quelle condizioni, quindi, è perché avevano ricevuto ampie rassicurazioni dai dirigenti del Pam. Tra questi, l’italiano Rocco Leone, vice direttore del Pam Congo, all’epoca dei fatti direttore ad interim. La conferma di questo impianto arriva anche dalla sua recente iscrizione nel registro degli indagati della procura di Roma.
Le accuse sono molto pesanti e riguardano gravi lacune nella sua condotta e in quella del dirigente congolese di area del Pam Mansour Rwagaza, proprio in quanto alle garanzie fornite all’ambasciatore e al carabiniere. Sono loro i responsabili di quella che secondo la procura di Roma è stata una rapina a scopo di estorsione per 50mila dollari finita male.
«L’ambasciatore mi ha chiesto di restare a Goma e incontrare i nostri connazionali. Ci siamo visti come da appuntamento poco dopo le otto del 22 febbraio, abbiamo fatto colazione assieme e organizzato le giornate successive. Ricordo bene che aveva un’espressione ancora assonnata ma posso dire senza dubbio che era sereno», riferisce il console Alfredo Bruno Russo, partito da Kinshasa il 19 febbraio assieme ad Attanasio e Iacovacci come membro effettivo della missione a Rutshuru, poi fermatosi a Goma, attualmente di stanza a Brazzaville.
A conclusione delle indagini preliminari, i Carabinieri del reparto antiterrorismo del Ros denunciano che i due quadri del Pam «avrebbero omesso per negligenza ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti alla missione e di informare cinque giorni prima del viaggio la missione di pace Monusco preposta alla sicurezza e alla predisposizione di scorta armata e veicoli corazzati» e che « avrebbero attestato il falso».
Nel caso di trasporto di soggetti esterni al Pam, infatti, la comunicazione ai vertici va presentata almeno cinque giorni prima della missione stessa ai fini di valutare rischi e chiedere, nell’eventualità, una scorta adeguata, e non, come è avvenuto, la sera del 21 febbraio, a meno di dodici ore dall’inizio della missione.
Per aggirare la burocrazia interna, inoltre, e accelerare l’iter per l’assegnazione di più veicoli, è stato dichiarato che tutti i sette membri della missione fossero effettivi dell’organismo Onu: Attanasio e Iacovacci, in altre parole, ufficialmente non risultavano nel convoglio.
Se i nostri due connazionali, quindi, hanno viaggiato senza protezione, in veicoli normalissimi, su una strada dichiarata green sebbene almeno in alcuni tratti sia considerata da tutti una delle più pericolose d’Africa, lo si deve a Rwagaza che ha eseguito e a Leone che, in qualità di suo superiore, ha sottoscritto i procedimenti messi in atto.
Senza protezioni
Come svelato dagli atti dell’inchiesta della procura di Roma, quando una moto ha affiancato le auto del convoglio, i componenti erano assolutamente impreparati e sprovvisti di protezione e, non potendo disporre della cifra richiesta di 50mila dollari – stando alla ricostruzione fatta da Rwagaza e Leone agli atti – hanno consegnato quello che avevano. Ma i membri del commando, a quel punto, avrebbero deciso di trasformare la rapina in un rapimento e condurre i due nostri connazionali nella foresta per chiedere un riscatto. Il resto, è tragica cronaca.
«Noi gli atti non li abbiamo ancora letti, li sta studiando il nostro avvocato ma posso dire con certezza che queste notizie riguardo il presunto rapimento e i dollari richiesti, sono roba vecchia», dice Salvatore Attanasio, papà di Luca che aggiunge: «Si tratta delle prime dichiarazioni già raccolte dai Ros nel periodo immediatamente successivo all’agguato, nulla di nuovo. L’iscrizione di Rwagaza prima e Leone poi nel registro degli indagati, sono passi in avanti ma mi preme ricordare che se non parlano, non ci saranno progressi nell’inchiesta».
«L’atteggiamento da lì in poi assunto dal Pam che si è trincerato dietro una presunta immunità diplomatica e non ha permesso a nessuno dei suoi effettivi di parlare è vergognoso. Rwagaza, quando è venuto a Roma per essere interrogato dalla procura, si è avvalso della facoltà di non rispondere», dice Salvatore Attanasio.
«L’Onu dovrebbe rimuovere questa foglia di fico dal momento che si tratta di una sua agenzia. Rivolgiamo un appello al segretario generale António Guterres affinché intervenga e ponga fine all’omertà del Pam», aggiunge.
Pochi passi avanti
Si sperava che l’iscrizione nel registro degli indagati di Leone lo scorso 9 febbraio, dopo quella di Rwagaza a giugno, suscitasse finalmente una reazione da parte del Pam. Ma fin qui, tutto tace.
Se da un punto di vista di accertamento delle responsabilità e delle gravissime «omesse cautele» si sono fatti timidi passi in avanti con l’indagine aperta per Leone e Rwagaza - anche se i risultati raggiunti sono scarsi vista l’indisponibilità del Pam a collaborare - per il resto si è ancora in alto mare.
A un anno esatto dal tragico evento, le verità attorno a mandanti, motivazioni, esecutori sono lontane. Nel computo degli esiti sbandierati dalle autorità congolesi, dopo la dichiarazione del presidente della Repubblica democratica del Congo Felix Tshisekedi lo scorso maggio, che parlava di «svolta nelle indagini» per l’arresto di presunti assassini poi rivelatisi estranei e quindi rilasciati di lì a poco, ci sono stati i fermi di sei presunti appartenenti al commando lo scorso gennaio, che hanno suscitato più di qualche perplessità e lasciano tuttora molti dubbi riguardo moventi e organizzatori dell’attentato.
Tornati a mani vuote
I nostri inquirenti, invece, in Congo sostanzialmente non hanno mai toccato palla. I carabinieri del Ros, partiti il 23 febbraio alla volta di Goma, sono tornati a casa senza un nulla di fatto per le mancate autorizzazioni e l’inesistente collaborazione delle autorità locali. Alle rogatorie inviate a maggio e settembre, la procura di Roma non ha mai ricevuto risposta.
Un anno dopo, quindi, siamo ancora ai blocchi di partenza. Buio fitto riguardo ideatori, movente ed esecutori. Si è passati dall’ipotesi della semplice rapina finita male, al tentativo di rapimento a scopo di riscatto. Qualcuno, specie nell’ambiente dei missionari cattolici, ha azzardato possibili connessioni tra gli eccidi commessi in Kivu a opera di milizie al soldo di Kigali o Kampala e presunte indagini che Attanasio stavo svolgendo sotterraneamente.
C’è poi l’allerta terrorismo di cui osservatori americani riferivano ai colleghi Ue nell’imminenza della missione. La svolta reale potrebbe giungere se i magistrati e le autorità congolesi cominciassero a collaborare seriamente e se Rocco Leone, uno dei componenti l’equipaggio della tragica missione, quindi decisivo per la ricostruzione dei fatti in qualità di testimone oculare prima che di indagato, e i suoi colleghi decidessero finalmente di parlare.
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