- La sinistra è sempre stata contro la guerra. Fin dalla nascita della Prima internazionale, il movimento socialista si è battuto per “l’abolizione definitiva di ogni guerra”.
- In L’Europa può disarmare? (1893), Engels segnalò che la produzione di armamenti senza precedenti avvenuta in Europa rendeva possibile l’approssimarsi di «una guerra di distruzione che il mondo non aveva mai conosciuto».
- Tuttavia, con il passare degli anni, socialdemocratici e socialisti si impegnarono sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace.
La sinistra è sempre stata contro la guerra. Fin dalla nascita della Prima internazionale, il movimento socialista si è battuto per “l’abolizione definitiva di ogni guerra”. Nei documenti di questa organizzazione si leggeva che erano soprattutto i lavoratori a pagare, economicamente, quando non con il loro sangue – e senza alcuna distinzione tra vincitori e sconfitti –, le conseguenze più nefaste delle guerre.
In L’Europa può disarmare? (1893), Engels segnalò che la produzione di armamenti senza precedenti avvenuta in Europa rendeva possibile l’approssimarsi di «una guerra di distruzione che il mondo non aveva mai conosciuto». Aggiunse che, «il sistema degli eserciti permanenti era stato spinto a un punto talmente estremo da essere condannato a rovinare economicamente i popoli, per via delle spese belliche, o a degenerare in una guerra di annientamento generale». Il proletariato doveva battersi per il disarmo, considerato l’unica effettiva «garanzia della pace».
Contro il militarismo
Ben presto, da argomento teorico analizzato in tempi di pace, la lotta contro il militarismo divenne un problema politico preminente, soprattutto in seguito all’espansione imperialista da parte delle principali potenze europee.
La presunta politica di pace della borghesia venne irrisa e definita con il termine di «pace armata». Jaurès, leader del partito socialista francese, in un discorso del 1895, condensò in una frase i timori delle forze di sinistra: «sempre la vostra società, violenta e caotica, persino quando vuole la pace, persino quando è in stato di quiete apparente, reca in sé la guerra, come la nube reca in sé l’uragano». La mozione votata al Congresso di Stoccarda (1907) della Seconda internazionale diede due indicazioni fondamentali: la scelta di voto contrario a leggi di bilancio che proponevano l’aumento delle spese militari e l’avversione agli eserciti permanenti.
Un’opposizione blanda
Tuttavia, con il passare degli anni, socialdemocratici e socialisti si impegnarono sempre meno a promuovere una concreta politica d’azione in favore della pace. L’opposizione al riarmo e ai preparativi bellici in atto fu molto blanda e la Spd, divenuta molto legalista e moderata, barattò il suo voto favorevole ai crediti militari in cambio della concessione di maggiori libertà politiche in patria. Le conseguenze di questa scelta furono disastrose.
Il movimento operaio giunse a condividere gli obiettivi espansionistici delle classi dominanti e venne travolto dall’ideologia nazionalista. La Seconda internazionale si rivelò del tutto impotente di fronte allo scoppio della Prima guerra mondiale, fallendo in uno dei suoi intenti principali: preservare la pace.
Guerra alla guerra
I due esponenti di punta del movimento operaio che si opposero con maggiore vigore alla guerra furono la Luxemburg e Lenin. La prima ammodernò il bagaglio teorico della sinistra sulla guerra e mostrò come il militarismo rappresentasse un nerbo vitale dello stato.
Sostenne che la parola d’ordine «guerra alla guerra!» doveva diventare «il punto cruciale della politica proletaria». Pertanto, da quel momento in avanti, la classe lavoratrice doveva avere come «scopo principale», anche in tempo di pace, quello di «lottare contro l’imperialismo e di impedire le guerre».
In Il socialismo e la guerra (1915), Lenin ebbe il merito di mostrare la «falsificazione storica» operata dalla borghesia, ogni qual volta provava ad attribuire un significato «progressivo e di liberazione nazionale» a quelle che, in realtà, erano guerre «di rapina», condotte con il solo obiettivo di decidere a quale delle parti belligeranti sarebbe toccato opprimere maggiormente popolazioni straniere.
Per Lenin, i rivoluzionari dovevano «trasformare la guerra imperialista in guerra civile», poiché quanti volevano una pace veramente «democratica e duratura» dovevano eliminare la borghesia e i governi colonialisti. Lenin era convinto di ciò che la storia ha mostrato essere inesatto, ovvero che ogni lotta di classe condotta conseguentemente in tempo di guerra crea «inevitabilmente» stati d’animo rivoluzionari nelle masse.
Un “nuovo 1914”
Come comportarsi dinanzi alla guerra accese anche il dibattito del movimento femminista. La necessità di sostituire gli uomini inviati al fronte, in impieghi precedentemente da loro monopolizzati, favorì il diffondersi di un’ideologia sciovinista anche nel movimento suffragista. Contrastare quanti agitavano lo spauracchio dell’aggressore, per derubricare fondamentali riforme sociali, fu una delle conquiste più significative delle femministe più radicali del tempo. Esse indicarono come la battaglia contro il militarismo fosse un elemento essenziale della lotta contro il patriarcato.
La profonda frattura politica consumatasi tra rivoluzionari e riformisti dopo la nascita dell’Unione sovietica e il dogmatico clima ideologico degli anni Venti e Trenta inficiarono la possibilità di un’alleanza contro il militarismo tra l’Internazionale comunista e i partiti socialisti europei. In molti ritenevano un “nuovo 1914” pressoché inevitabile.
E così fu. Il crescendo di violenze perpetrate dal fronte nazi-fascista e lo scoppio della Seconda guerra mondiale generarono uno scenario ancora più nefasto di quello d’inizio secolo. L’Urss fu impegnata in quella Grande guerra patriottica che fu decisiva al fine della sconfitta del nazismo e divenne un elemento così centrale dell’unità nazionale russa da perdurare fino ai nostri giorni.
Come gli Stati Uniti
A partire dal 1961, sotto la presidenza di Chruščëv, l’Urss inaugurò un nuovo ciclo politico che prese il nome di coesistenza pacifica. Ciò nonostante, nel 1968 i sovietici invasero con mezzo milione di soldati la Cecoslovacchia che chiedeva maggiore democrazia.
Brežnev chiamò questo principio: «sovranità limitata». Di fronte alla “primavera di Praga”, egli affermò che «quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare i paesi socialisti verso il capitalismo, questo diventa un problema comune».
Secondo questa logica antidemocratica, la scelta di stabilire cosa fosse o non fosse “socialismo” era puro arbitrio dei dirigenti sovietici. L’Urss continuò a destinare una parte significativa delle sue risorse economiche alle spese militari e ciò contribuì all’affermazione di una cultura di guerra e autoritaria nella società.
Un ulteriore esempio evidente di questa politica fu l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979. Così facendo, Mosca si alienò, definitivamente, le simpatie del movimento per la pace. L’insieme di questi interventi militari non solo sfavorì il processo di riduzione generale degli armamenti, ma concorse a screditare e a indebolire globalmente il socialismo. L’Urss venne percepita, sempre più, come una potenza imperiale che agiva in forme non dissimili da quelle degli Stati Uniti.
Le guerre diffondono un’ideologia di violenza che si unisce spesso ai sentimenti nazionalistici che hanno più volte lacerato il movimento operaio. Di rado, esse rafforzano pratiche di democrazia diretta, mentre accrescono il potere di istituzioni autoritarie. È una lezione che la sinistra non dovrebbe mai dimenticare.
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