Inizia così il procedimento penale nei confronti di 24 indagati, tra psicologi, funzionari e assistenti sociali accusati di aver gestito illecitamente gli affidi di minori tolti alle famiglie. Al centro, il cosiddetto “metodo Foti”
- Domani, 30 ottobre, comincerà il processo sul caso Bibbiano: un evento che passa quasi sotto silenzio, nonostante l’intera inchiesta sia stata vivisezionata dall’opinione pubblica.
- Gli indagati sono 25 e i reati contestati sono, a vario titolo, peculato d’uso, abuso d’ufficio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, falsa perizia, frode processuale, depistaggio, rivelazioni di segreto in procedimento penale, falso ideologico in atto pubblico, maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni dolose gravissime, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
- Il processo si celebra con una sentenza pubblica già pronunciata, che rischia di influenzare quella dei giudici.
Come tutte le inchieste, anche quella sulla rete che gestiva illecitamente gli affidi di minori in Val d’Enza, in Emilia-Romagna, ha un nome in codice. Gli inquirenti hanno preso in prestito un romanzo di Dan Brown: Angeli e demoni. I giornali, invece, l’hanno subito ribattezzato “caso Bibbiano”, consegnando il paese in provincia di Reggio Emilia alla storiografia giudiziaria dell’Italia.
Domani, 30 ottobre, comincerà il processo: un evento che passa quasi sotto silenzio, nonostante l’intera inchiesta sia stata vivisezionata dall’opinione pubblica. Giornali e trasmissioni televisive si sono occupate in modo approfondito dell’indagine prima ancora della sua conclusione, trasformando Bibbiano in un fenomeno mediatico. Con il rischio che questo, oltre a condizionare, infici l’esito del processo.
L’indagine inizia nell’estate del 2018. Il sospetto sorge in seguito a numerose denunce presentate dai servizi sociali contro genitori accusati di maltrattare i loro figli. Troppe, secondo gli inquirenti, che hanno cominciato a indagare per capire come mai, in una provincia apparentemente tranquilla, avvenissero tutte quelle violenze domestiche.
Così è emersa l’ipotesi di una rete formata da assistenti sociali e psicologi: i primi avrebbero lucrato sugli affidi di minori, tolti ai genitori in seguito a presunti maltrattamenti e affidati poi ad altre famiglie, i secondi invece avrebbero incassato la loro parte grazie a sedute di terapia con i bambini, per far loro denunciare violenze subìte. Il quadro sarebbe quello di un sistema sorretto da finte relazioni dei servizi sociali, documenti falsi e perizie psicologiche sui bambini frutto di pressioni e di plagi.
In concreto, i centri d’assistenza sociale e gli psicologi, che per anni hanno assistito la magistratura minorile nella gestione degli affidi, avrebbero creato casi inesistenti in modo da ottenere consulenze e compensi illeciti.
Gli indagati sono 25 e i reati contestati sono, a vario titolo, peculato d’uso, abuso d’ufficio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, falsa perizia, frode processuale, depistaggio, rivelazioni di segreto in procedimento penale, falso ideologico in atto pubblico, maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni dolose gravissime, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
Il processo sarà lungo, con 155 testimoni citati dall’accusa, una imponente mole di intercettazioni e prove da valutare, ma soprattutto l’attenzione di tutta l’Italia addosso. I principali imputati nel procedimento sono Federica Anghinolfi, ex responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza e il suo braccio destro Francesco Monopoli, ex assistente sociale dell’Azienda sanitaria. L’altro personaggio chiave è la psicoterapeuta Nadia Bolognini, che si occupava delle sedute settimanali dei minori presso una struttura di Bibbiano ed è indagata con altri colleghi per aver utilizzato tecniche plagianti sui bambini.
Il metodo Foti
Il cuore del processo, tuttavia, è il cosiddetto metodo Foti. Claudio Foti è la figura forse più nota alle cronache, anche se la sua posizione processuale è più defilata rispetto a quella di altri imputati, perché accusato principalmente di frode processuale.
Laureato in Lettere, Foti esercita comunque la professione di psicologo ed è l’ideatore di un metodo di psicoterapia minorile di “emersione dei ricordi rimossi dell’abuso”, utilizzato dagli psichiatri che si sono formati nel centro studi Hansel e Gretel da lui fondato. Questo metodo parte dal presupposto che spesso gli abusi si celino nella memoria rimossa dei bambini, che per paura o per autodifesa nascondono così il ricordo delle violenze.
Partendo da questo assunto, gli psicologi devono provocare il ricordo nei bambini, in modo da individuare gli aguzzini in famiglia. Tale prassi, tuttavia, è considerata scorretta da tutti i protocolli di ascolto dei minori perché fuorviante e induttiva. Le intercettazioni e le indagini hanno mostrato come questo metodo portasse i minori a ricordare fatti rielaborati in modo suggestivo dagli psicologi.
Nel capo d’imputazione di Foti, il metodo viene descritto concretamente: lo psicoterapeuta avrebbe condotto alcune sedute con una minore, «alterandone lo stato psicologico ed emotivo sui fatti oggetto del procedimento» civile che valutava le capacità genitoriali dei genitori, «sottoponendo la minore a sedute serrate, attraverso modalità suggestive e suggerenti», «inducendo in tal modo in capo alla minore il convincimento di essere stata abusata sessualmente dal padre e dal socio». In questo modo, nella bambina si era radicato il rifiuto a incontrare il padre, «il quale veniva decaduto dalla potestà genitoriale» dal tribunale dei minorenni.
Il metodo Foti, così stigmatizzato negli atti, è stato per molti anni utilizzato dai tribunali dei minori sia in Piemonte, dove l’associazione Hansel e Gretel è stata fondata, che in Emilia, dove le perizie dello psichiatra e di chi seguiva la sua impostazione venivano richieste. Addirittura una decina d’anni fa lo stesso Foti aveva tenuto lezioni presso la Scuola superiore della magistratura.
Negli anni successivi, poiché molte delle perizie fatte dal centro di Foti si erano mostrate poco attendibili, anche molti degli uffici giudiziari che prima si avvalevano delle sue perizie hanno utilizzato maggiore prudenza.
Il processo mediatico
Prima ancora di essere celebrato, il processo di Bibbiano è stato al centro del dibattito pubblico e politico. Il caso più eclatante è stato quello del sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, eletto con il Pd. Nel corso dell’inchiesta il primo cittadino è stato prima arrestato e poi messo ai domiciliari, ridotti infine a obbligo di dimora, perché ritenuto parte connivente della rete illecita.
La Cassazione, tuttavia, ha considerato illegittime le misure e le ha revocate. Non prima, però, che si scatenassero gli attacchi della Lega, con il motto «Parlateci di Bibbiano», e poi anche del Movimento 5 stelle, che aveva duramente attaccato il Pd sovrapponendo il partito agli indagati dell’inchiesta.
Dopo la decisione della Cassazione, il Pd ha parlato di «macchina del fango» nei confronti di Carletti, condannato dall’opinione pubblica prima ancora che venisse reso noto il suo ruolo nella vicenda. Oggi, Carletti è indagato per concorso in abuso di ufficio per aver «omesso di effettuare una procedura a evidenza pubblica per l’affidamento del servizio di psicoterapia» in favore del centro studi Hansel e Gretel, ma non è coinvolto nei crimini contro i minori.
Il risvolto politico del processo, tuttavia, è solo una parte dello strascico pubblico che rischia di rendere molto complicato lo svolgimento del processo. In settembre, prima ancora del rinvio a giudizio degli indagati, il presidente del tribunale di Reggio Emilia ha ridistribuito il lavoro tra i giudici, motivandolo col fatto che «nei prossimi mesi inizierà la celebrazione del complesso procedimento riguardante i noti fatti di Bibbiano».
I difensori hanno letto l’iniziativa come una sorta di preventiva condanna nei confronti degli indagati. L’Unione camere penali italiane ha scritto che in questo modo «il presidente del tribunale dà per scontato l’esito dell’udienza preliminare» e i legali di Federica Anghinolfi, hanno chiesto lo spostamento del processo in una sede diversa da Reggio Emilia, a garanzia dell’imparzialità del giudice.
Ultimo in ordine di tempo, anche Claudio Foti ha deciso di utilizzare i media come arma processuale, seppur fuori dal processo. Per farlo ha scelto la tribuna di Radio radicale, dove insieme al suo avvocato ha tenuto una conferenza in cui si è difeso il funzionamento del suo metodo, prendendo le distanze e sostenendo che sia stato usato impropriamente nelle indagini penali. Questo è il clima in cui si celebra il processo: con una sentenza pubblica già pronunciata, che rischia di influenzare quella dei giudici.
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