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Si discute da giorni sull'ipotesi di sciogliere il Pd. Un’idea che si basa, tra le altre cose, sulla perdita consensi. In particolare sui voti in meno presi nelle roccaforti della sinistra, come mostrano alcune mappe dell’Italia. Ma questo indicatore è fuorviante: si arriva “primi” in relazione alle dimensioni degli altri partiti.
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Per fare contenti quelli a cui sta antipatico il partito, che non lo votano da anni e non lo voteranno, i dirigenti del Pd dovrebbero dire a chi invece ha continuano a farlo: arrivederci, scusateci, chiudiamo. E dovrebbero farlo nel momento in cui Il Pd può essere motore e baricentro della coalizione alternativa al centrodestra.
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Il problema primario del Pd riguarda la inadeguatezza della linea politica, della strategia delle alleanze e della leadership. Il Pd non ha una chiara e coerente linea politica, percepibile come tale dall’opinione pubblica.
La tesi espressa più volte su Domani e sviluppata nello speciale uscito sabato 8 ottobre (La storia del Pd è finita), secondo cui il Pd dovrebbe sciogliersi, è basata a mio avviso su una lettura impropria del voto, sottovaluta i problemi assai seri, ma più circoscritti, che il Partito democratico deve risolvere e le responsabilità di cui dovrà farsi carico il prossimo segretario. Devo premettere che ho partecipato attivamente alla fondazione del Pd: con una relazione (applaudita da Romano Prodi, dileggiata da Massimo D’Alema) sulla sua forma organizzativa e la democrazia interna al Convegno di Orvieto promosso da Prodi, Ds e Margherita nel 2006; poi come coestensore (e redattore materiale) del manifesto fondativo dei valori nel 2007; infine come coestensore (e redattore materiale) dello statuto (nel quale confluirono le idee principali proposte a Orvieto) in qualità di presidente della commissione che lo ha proposto alla approvazione dell’assemblea nazionale nel 2008. Questo non mi rende un difensore d’ufficio.
Cominciai a capire che il progetto avrebbe preso una brutta piega già quando, poche settimane dopo che Walter Veltroni lo aveva miracolosamente portato al 33 per cento dei voti (dodici milioni in numero assoluto), D’Alema e Bersani decisero che dovevano riprendersi “la ditta”, cominciarono a fargli la guerra e lo indussero a dimettersi.
Da diversi anni, dopo l’ennesima disillusione prodotta dalla parabola renziana e la protratta fase di inconcludenza successiva, non sono iscritto e cerco di osservare quel partito, come faccio con gli altri, con le lenti del ricercatore.
Come si arriva primi
Tornando al punto: la prova empirica principe dell’ineluttabile tendenza che dovrebbe portare verso lo scioglimento sarebbe costituita da mappe dell’Italia colorate di rosso nei comuni in cui il Pd e i partiti suoi antenati sono risultati i “partiti più votati” nel corso del tempo. Questo indicatore è fuorviante per tre motivi.
Innanzitutto, si arriva “primi” in relazione alle dimensioni degli altri partiti. Esempio: se i flussi di voto tra i partiti del centrodestra fossero stati diversi e Fratelli d’Italia Lega, Forza Italia avessero ottenuto tutti e tre intorno al 15 per cento, il centrodestra avrebbe ugualmente stravinto le elezioni del 2022.
Se il Pd avesse ottenuto una percentuale anche più bassa del 19 per cento, la cartina del 2022 avrebbe avuto molti punti rossi in più (che è la ragione per cui il Pds del 1994, con il 20 per cento, sembra molto più forte del Pd del 2022).
In secondo luogo, i “comuni rossi” attualmente residui (così come lo erano in passato per il Pci) sono per alcuni aspetti un punto di forza (consentono di governare alcune regioni, grandi città, e vincere in alcuni collegi uninominali) ma sono anche indicatore di una debolezza.
Vuol dire che il Pd prende il 33 per cento dei voti a Bologna città, il 19 per cento a Brescello (Parma), quasi niente al sud. Se nel 2022 il Pd avesse preso il 20 per cento sul piano nazionale (come il Pds del 1994) ma avesse ottenuto questa percentuale in modo uniforme da Bergamo a Caltanisetta, avrebbe dimostrato d’essere un partito ancora più forte, meglio radicato nella società italiana. Giusto?
Ecco, in questo caso la mappa sarebbe stata completamente bianca! Perché il Pd del 2022 sarebbe arrivato quasi sempre secondo (al nord rispetto a FdI, al sud rispetto a FdI o al M5s).
I partiti antenati
E c’è un terzo problema. Per mostrare che il Pd sta andando alla deriva, vengono sommati (nel passato) i voti dei partiti suoi “antenati”. Ammesso che sia corretto considerare il Pd come la continuazione del partito comunista, di sicuro non si può dire, in nessun senso, che sia la continuazione del Psi o del Prc, ma solo di Ds e Margherita, dentro un sistema partitico radicalmente ristrutturato all’inizio degli anni Novanta.
Questo ci porta all’oggi. Il Pd ha preso nel 2022 il 19 per cento dei voti. Una percentuale identica a quella del 2018 e di tre punti percentuali più bassa delle europee del 2019. Se vale il principio che i confronti si fanno tenendo conto di fusioni e scissioni, come è corretto quando esistono chiare “linee ereditarie”, va considerato che nel 2018 Matteo Renzi stava nel Pd (anzi, era il segretario) e che nel 2019 Carlo Calenda stava nel Pd (anzi, era capolista nel nord-est).
Anche assumendo che Azione-Iv abbiano preso tre punti percentuali da elettori di centrodestra, rimane che la somma tra elettori Pd del 2022 e quelli di “area Pd” andati al “partito scissionista” sono stati non meno del 24 per cento dei votanti, più del 19 per cento preso nel 2018, più del 22 per cento preso nel 2019, e sono stati di più che nel 2018 e nel 2019 anche in numero assoluto.
Ma soprattutto, come mostrano tutte le analisi dei flussi, fatte con vari metodi e da diversi istituti, l’elettorato del Pd è il più stabile (il meno volatile) e internamente omogeneo rispetto all’elettorato di tutti gli altri partiti.
Il problema del Pd non riguarda né i voti (che così come sono andati possono arrivare) né la mancanza di “dibattito culturale” (che è semmai ipertrofico) né che la comunità dei suoi militanti sia troppo ristretta (chi lo pensa faccia confronti con partiti esistenti, non immaginari o recuperati da una memoria selettiva e edulcorata del passato remoto) né la mancanza di una classe politica capace di operare in parlamento o nelle amministrazioni locali (semmai il problema è che sono troppi quelli che ambiscono a farlo, e fin troppo appagati quelli che praticano la politica come professione da decenni per essere pronti a svolgerne un’altra).
Politiche e alleanze inadeguate
Il problema primario del Pd riguarda la inadeguatezza della linea politica, della strategia delle alleanze e della leadership. La leadership, d’altro canto, è data, inscindibilmente, dal/la leader e dalla linea politica che lei/lui, coordinando il partito, è in grado di promuovere e comunicare.
Il Pd non ha, in questo senso, una chiara e coerente linea politica, percepibile come tale dall’opinione pubblica, dai tempi dal referendum costituzionale del 2016, quando iniziò il cannoneggiamento interno ed esterno contro Matteo Renzi, il quale ha poi sfruttato le elezioni del 2018 per costruire il suo partitino personale più che per rimettere in carreggiata quello di cui era ancora segretario.
A seguire, per più di un anno, dal luglio 2018 al novembre 2019, i capicorrente timorosi di perdere terreno hanno trascinato avanti la segreteria provvisoria di Maurizio Martina. A seguire, dopo solo un anno e mezzo dalla investitura popolare diretta, Nicola Zingaretti ha rinunciato al mandato ricevuto senza spiegare esattamente perché.
I capicorrente zingarettiani hanno quindi richiamato Enrico Letta dall’esilio parigino e lo hanno eletto in assemblea senza primarie. Nella politica di oggi, centrata sui leader, che il Pd abbia preso la stessa percentuale del 2018 e che l’area ex Pd, nella somma con gli “scissionisti” Renzi e Calenda, abbia preso addirittura di più è quasi un fenomeno paranormale.
O meglio, dimostra quanto sia solido e stabile il suo elettorato, rispetto a tutti gli altri partiti italiani e quindi anche a quelli – più piccoli, su posizioni più estreme e con un elettorato più voltatile – che nella attuale legislatura compongono l’opposizione.
D’altro canto, come abbiamo messo in evidenza in un’analisi scritta per Domani con Andrea Pedrazzani e Federico Vegetti, il risultato delle elezioni 2022 attribuisce proprio al Pd una responsabilità di vitale importanza per la democrazia italiana, non solo come motore dell’opposizione parlamentare ma, in prospettiva, per ricreare le condizioni di una possibile alternativa al centrodestra.
Il nord appare poco contendibile, ma in altre aree del paese e nelle grandi città il centrodestra è in netto svantaggio rispetto alle opposizioni. Sarebbe abbastanza singolare se, dopo aver visto quanto possa costare caro dividersi, invece di attivarsi per aggregare il centrosinistra, il Pd decidesse a sua volta di sciogliersi, lasciando a M5s e Calenda-Renzi il beneficio di raccogliere le spoglie!
Chiudere il Pd?
Per fare contenti quelli a cui sta antipatico, che non lo votano da anni e non lo voteranno, i dirigenti del Pd dovrebbero dire a chi invece ha continuano a farlo: arrivederci, scusateci, il partito a cui avete chiesto di essere rappresentati in parlamento, governati in molte regioni e migliaia di comuni non esiste più. Proprio nel momento in cui la sua possibile funzione di baricentro e motore della coalizione alternativa al centrodestra, che non può essere svolta da altri, sarebbe essenziale.
Non è chiaro poi come si svilupperebbe in concreto il processo della autodissoluzione. Si restituiscono le quote azionarie conferite da Ds e Margherita ai presidenti delle rispettive fondazioni? Si chiede agli attuali dirigenti ed eletti di optare per l’uno o l’altro contenitore? Si chiede agli ex portavoce delle sardine o a chi convocherà la prossima marcia per la pace di assumere la guida del nuovo movimento? E chi glielo chiede? Una mozione dell’assemblea nazionale Pd?
Le regole dello statuto del Pd consentono invece a chiunque voglia farlo di partecipare più attivamente iscrivendosi oppure votando su linea e leader alle primarie aperte.
Quote di potere
Oltre a quello di una leadership fragile e instabile, il Pd ha due altri seri problemi strutturali, che sono pesante concausa del primo: uno interno (contenibile) e l’altro esterno (irremovibile). Ha un ceto politico troppo esteso, un numero cospicuo di persone di tutte le generazioni che vivono di politica, che vorrebbero cominciare o continuare a farlo, perennemente in lotta per conquistare o mantenere incarichi, pronti a issare fantomatiche divergenze ideologiche per giustificare l’esistenza delle correnti, ma pure pronti rapidamente a riposizionarsi per gli stessi obiettivi.
Per questi gruppi controllare congressi a cui partecipano pochi iscritti fidelizzati è più facile che controllare l’esito delle primarie. Non a caso, hanno cercato ripetutamente di smontarle o di depotenziarle, come stanno provando a fare anche adesso.
L’ipotesi avanzata dall’attuale vicesegretario Giuseppe Provenzano, per esempio, di sganciare l’elezione dell’assemblea nazionale dalla scelta del leader perpetuerebbe in peggio il peggiore difetto del Pd: il peso delle correnti che dal giorno immediatamente successivo alle primarie chiedono al leader appena eletto di pagare il conto, poi per rimanere visibili devono fargli il controcanto e in alcuni casi, quando lo trovano troppo popolare e ingombrante, lo devono abbattere.
Zingaretti, in effetti, aveva portato proprio questa come unica motivazione delle sue dimissioni. Oggi, siccome l’area che ruota intorno a Provenzano non ha un leader credibile da proporre, chiede di potersi almeno garantire una quota di potere in quel modo.
Assimetria informativa
Il Pd soffre inoltre di una peculiare asimmetria del sistema informativo. Testate e giornalisti (su carta e televisivi) che si rivolgono prevalentemente agli elettori di centrodestra sono quasi sempre un passo indietro ai leader di quell’area politica. Il loro obiettivo è mettere in buona luce loro e in cattiva luce i leader dei partiti avversari.
L’unico direttore che entrò in collisione con Silvio Berlusconi ai tempi d’oro fu Indro Montanelli. Testate, giornalisti e i tanti intellettuali che parlano al pubblico di centrosinistra sono invece incentivati o sono inclini (per cultura, istinto polemico, passione politica, opportunità di mercato) a mettersi sempre un passo avanti, a dimostrare d’essere più intransigenti, più acuti, moralmente superiori, più coerenti dei leader politici.
Il loro successo sembra funzione della capacità di proporsi come una guida alternativa per il “popolo della sinistra”, in concorrenza con i leader politici della stessa area. Vale per varie testate, e soprattutto per i giornalisti-tribuni televisivi che, dopo i grandi successi dei primi anni Novanta, non ci hanno più abbandonato.
Sia per il ceto politico ultranavigato sia per i tribuni del popolo della sinistra le leadership fragili del Pd sono una manna, le leadership forti sono un nemico.
Le primarie aperte non sono una panacea per questi limiti, non garantiscono il risultato, non possono creare grandi talenti se non ce ne sono, ma possono fare incontrare chi vuole un cambiamento di rotta e il/la leader che ha le possibilità maggiori, nel momento dato, per provare a realizzarlo.
Chi dice “la leadership è questione secondaria (viene dopo)”, provi a spiegarsi in un altro modo successi e insuccessi del Labour o dei Conservatori inglesi, della Cdu e della Spd, della Lega e di FdI. Chi dice “prima svolgiamo un ampio dibattito sull’identità”, fa finta di presumere che poi l’esito (non si sa come riassumibile) di questo ampio e inevitabilmente confuso dibattito possa essere appiccicato addosso al leader scelto in un secondo momento.
Mentre è invece del tutto ovvio che, alla fine, anche nei partiti, si sceglie tra le alternative realmente disponibili, tra le linee politiche e le visioni che singoli individui, insieme e per conto di gruppi dirigenti fatti di altri individui, sono in grado di proporre e si propongono di portare avanti. Se poi queste persone saranno abbastanza capaci e avranno l’opportunità di provarci per un tempo almeno pari alla durata del mandato, riusciranno forse anche e delineare una identità politica in cui molti più elettori possano riconoscersi.
L’Ulivo incarnato da Romano Prodi nel 1996 aveva radici profonde ma non fu concepito a seguito di un “ampio dibattito congressuale” (i congressi di scioglimento di Ds e Margherita si fecero dopo). Per il Partito democratico prefigurato da Walter Veltroni nelle difficilissime elezioni del 2008 (che consentì al progetto di decollare) si può dire esattamente la stessa cosa.
Il quesito a cui i dirigenti del Pd devono rispondere oggi non riguarda statuti e manifesti ideologici, non servono penose liturgie di autocommiserazione. Dovrebbero dire se c’è tra di loro qualcuno che, se vince, siano poi disposi a sostenere lealmente, con idee, qualità, ambizioni almeno in qualche modo accostabili a quelle.
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