- Il segretario lancia il congresso, confronto allargato per evitare la rottura fra chi guarda a M5s e chi a Calenda. O l’abbandono di chi non vuole essere rappresentato da un leader ex renziano o da un laburista.
- Tutti d’accordo, Letta concede qualcosa a chi vuole lanciarsi alla scalata della segreteria, come Stefano Bonaccini, e a chi come Andrea Orlando proproneva un congresso «costituente» già all’indomani del disastro.
- Nel frattempo andrà al voto il Lazio e la Lombardia. Le alleanze dovrebbero essere consentite a livello locale. E sempre nel frattempo il governo delle destre si insedierà. Il rischio è che il Pd, anziché fare opposizione, passi i prossimi mesi a discutere di sé stesso, lasciando la scena a M5s e Calenda.
Dicono tutti sì al segretario. Ma come accade puntualmente nel Pd, dietro l’unanimismo di facciata si scavano le trincee.
Il giorno in cui sui media circolano le parole che quasi tutti i dirigenti democratici hanno bene in testa ma si guardano altrettanto bene da pronunciare ad alta voce – «scioglimento», sulla prima pagina di Domani, ma anche «scissione», «bivio», «estinzione» – Enrico Letta frena e accelera contemporaneamente.
Frena, ci prova, lo sbando all’indomani della sconfitta elettorale. Ma anche accelera: in una lettera agli iscritti indica la road map del congresso «costituente». Quattro tappe: la prima è una «chiamata» (un po’ call to action, un po’ Vangelo) degli esterni, modello lista «Italia Democratica e Progressista», che potranno iscriversi entro dicembre; la seconda, la discussione su «identità, profilo programmatico, nome, simbolo, alleanze, organizzazione»; non è escluso un cambio di nome.
La terza è il voto degli iscritti sui candidati che nel frattempo saranno emersi (quelli veri, non le auto-nomination di queste ore). Infine il giudizio sui due primi classificati nei circoli, l’inappellabile gazebata.
Tutti d’accordo
Tutti d’accordo, dicevamo, perché Letta concede qualcosa a ogni corrente. A chi vuole lanciarsi alla scalata della segreteria, come Stefano Bonaccini, dà il segnale dell’avvio della corsa. Infatti il portavoce di Base riformista, che lo sosterrà, approva ma chiede «un preciso cronoprogramma, con tempi certi»: sottinteso, non quel processo di riflessione più distesa e approfondita – e dilatata nei tempi – che chiedeva l’area laburista di Andrea Orlando, a caccia di un candidato; che però a sua volta incassa quell’aggettivo «costituente» che il ministro ha proposto all’indomani del disastro.
E ancora: la «chiamata» degli esterni è un invito a Art.1 – che terrà la sua direzione l’8 ottobre, dopo aver ascoltato quella del Pd giovedì 6 – e alle personalità esterne in avvicinamento, come Elly Schlein; ma anche ai mondi del volontariato, da Demos al terzo settore. Nel valzer dei sì, si distingue il vicesegretario Peppe Provenzano, che parla un po’ più chiaro: «Tutto dipende dalla riuscita della prima fase, quella dell’apertura e del chiarimento politico. Su questo dobbiamo concentrarci. Altrimenti la seconda sarà la riedizione dello stesso meccanismo che ci ha portato fin qui. Solo se faremo un partito nuovo avrà senso scegliere un nuovo segretario».
Quel primo confronto “allargato”, una specie di nuovo giro di agorà, dovrebbe mescolare i democratici e metterli al riparo dall’impronunciabile scissione fra chi guarda alle alleanze con M5s e chi guarda a Calenda. Oppure dall’abbandono di chi non si sentisse rappresentato da un segretario riformista ex renziano, o laburista. I gazebo si apriranno i primi di febbraio e non a marzo.
E qui si pone il primo problema: nel frattempo andrà al voto il Lazio e la Lombardia. Due sconfitte certe senza alleanze larghissime; che dovrebbero essere consentite a livello locale. E sempre nel frattempo – secondo grosso problema – il governo delle destre si insedierà.
Il rischio è che il Pd, anziché fare opposizione, passi i prossimi mesi a discutere di sé stesso, lasciando la scena a M5s e Calenda. Ma è pur vero che non sarebbe facile fare opposizione prima di aver deciso una linea politica. Basti pensare all’autonomia differenziata, legge-bandiera della Lega: su questo fra i democratici ci sono i dialoganti e gli intransigenti; fra i primi Bonaccini, fra i secondi Provenzano.
Quella sottile linea rosa
Letta è oggi in una posizione inedita, nel pur variegato catalogo della casistica dei leader Pd: è segretario uscente, non ricandidato, ma non dimissionario. Quindi nel pieno delle funzioni. Sarà lui a partecipare ai tavoli per le cariche che spettano all’opposizione in parlamento. Una decisione condivisa con i notabili del partito, per evitare reggenze che dessero un’idea di precarietà. In caso di dimissioni, sarebbe toccata a Valentina Cuppi, presidente, candidata non eletta.
Eppure il tema della presenza femminile rischia di fare cortocircuito con gli altri guai. Le elette sono il 30 per cento. Il che dovrebbe rendere più probabile l’ipotesi di «congelare» le due capogruppo uscenti, la deputata Debora Serracchiani e la senatrice Simona Malpezzi. Ai loro posti aspirerebbero «big» come Nicola Zingaretti e Andrea Orlando a Montecitorio, e a palazzo Madama Francesco Boccia. Tutti maschi.
Però i neopresidenti rischierebbero di essere precari: l’autonomia dei parlamentari è sacra, ma il nuovo segretario vorrà dire la sua su quei posti chiave, come già Letta al suo arrivo. Ma sarebbe credibile presentare un Pd d’opposizione «intransigente», chiede chi non è d’accordo con le conferme, incarnata dagli stessi volti parlamentari del Pd di governo?
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