- Letta va da Draghi e sente Mattarella. Poi con i suoi è chiaro: «Incomprensibile una rottura proprio mentre finalmente si riscrive l’agenda sociale del paese. Faremo di tutto per evitare la crisi di governo».
- Le proposte di Orlando per il «patto sociale». Stamattina la riunione del consiglio nazionale M5s poi la congiunta dei gruppi parlamentari Pd. Alla camera, scelta mai accaduta in questa legislatura, dà il termometro della preoccupazione del segretario.
- Conte però si è infilato in un guaio: se ritira la delegazione dalla maggioranza ha chiuso la legislatura e l’alleanza con il Pd; se assicura la navigazione al governo subirà una nuova fuoriuscita di parlamentari.
Appena Mario Draghi conclude la sua conferenza stampa, Enrico Letta dirama la convocazione congiunta dei gruppi del Pd di Camera e Senato, oggi alle due e mezza, presso la sala della Regina di Montecitorio. L’appuntamento in un luogo istituzionale, scelta solenne mai accaduta in questa legislatura, dà il termometro della preoccupazione del segretario.
Arriverà dopo la riunione del Consiglio nazionale dei Cinque stelle convocato alle 8 e mezza di mattina, che deve decidere una buona volta cosa farà domani il gruppo del Senato. Ma ormai la strada sembra segnata: al momento della fiducia sul decreto Aiuti, i senatori del M5s uscirà dall’aula.
In conferenza stampa il premier riferisce dell’incontro con i sindacati. «Positivo» secondo lui (un po’ meno per il leader Cgil Maurizio Landini). Illustra tutti i provvedimenti del «patto sociale» che costituiscono una risposta di fatto al documento in nove punti che Giuseppe Conte gli ha consegnato lo scorso 6 luglio. Un primo intervento «corposo» prima dell’estate, poi gli interventi strutturali nella finanziaria.
Il premier ringrazia i sindacalisti e i ministri presenti – quello del Lavoro Andrea Orlando e dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, che resta tutto il tempo in silenzio. E anche quelli assenti. Che sono tutti e due in agitazione permanente: Renato Brunetta, oggi uno dei più scatenati contro i “capricci” del M5s, e il grillino Stefano Patuanelli, che aveva promesso le dimissioni in caso di fiducia al decreto Aiuti.
Non a qualsiasi costo
Quelli del premier sono gesti, più che di cortesia, di consapevolezza delle tensioni che vive il suo governo. Ma Draghi non vuole fare la parte di chi intende restare a qualsiasi costo. Quindi è cortese, concede nei contenuti ma senza esagerare.
Anzi è ironico quando spiega che il provvedimento annunciato prima della finanziaria «era assolutamente importante, necessario e se questo coincide anche con l’agenda che mi ha dato Conte sono molto contento io. E forse anche lui».
E così quando riferisce che il segretario del Pd, che ha appena incontrato, non gli ha riferito novità: «Enrico Letta portatore di buone notizie? Potrebbe essere anche piacevole». Manca un messaggio alla destra? Arriva, ed è un avviso: «Un governo con gli ultimatum non lavora, a quel punto perde il suo senso di esistere. Se si ha la sensazione che è una sofferenza straordinaria stare in questo governo, che si fa fatica, bisogna essere chiari. Lo dico anche per tanti altri che a settembre minacciano sfracelli e cose terribili».
Ce l’ha con Matteo Salvini. Manca un riferimento al Colle, arriva anche quello. Se domani al Senato i Cinque stelle non votassero il decreto Aiuti tornerebbe alle camere per verificare i numeri in parlamento? «Chiedetelo al presidente della Repubblica». Il punto è millimetrico.
«Ho già detto che per me non c’è un governo senza M5s e che non c’è un altro governo Draghi», ripete. C’è chi cerca di convincerlo che una cosa è non votare il decreto aiuti, in coerenza al voto della Camera – questa è la versione delle colombe grilline – un’altra ritirare la fiducia al governo.
Conte, bivio disastroso
Conte è avvisato. In realtà è stato avvisato già lunedì, dopo l’incontro fra Mattarella e Draghi. Gli “amici” della moritura alleanza giallorossa lo scongiurano di agire con responsabilità: se proprio è inevitabile lo strappo del Senato, l’ex premier almeno anticipi a Draghi e al paese che si tratta “solo” di un no al provvedimento – e specificamente all’inceneritore romano che ha fatto esplodere il caso, casus belli che il Pd ha sottovalutato – ma assicuri che “dopo” il M5s voterà la fiducia al governo.
Ora la legislatura sta nelle mani di Conte. Che si è infilato in un guaio: se ritira la delegazione dalla maggioranza ha chiuso la legislatura e l’alleanza con il Pd; se assicura la navigazione al governo subirà una nuova fuoriuscita di parlamentari.
Intanto le opposte fazioni dei suoi se le suonano: Carlo Sibilia esulta per il risultato ottenuto sul salario minimo da un M5s «efficace», il senatore Alberto Airola replica che le risposte di Draghi «non possono che essere il nulla, o il nulla relativo».
Conte capisce che così non passa neanche la nottata e stoppa tutti in attesa di stamattina. «Vista la delicatezza del momento, la posizione del M5s non verrà anticipata», dice un comunicato, «pertanto qualsiasi dichiarazione o posizione espressa da singoli membri del M5s è da intendersi come espressione di una opinione personale».
Letta fino all’ultimo
Fino all’ultimo Letta cerca una mediazione. Orlando ha fatto l’impossibile per rendere chiara la sua proposta ai sindacati. E dai sindacati ha ottenuto un sì di massima sul metodo e sull’impostazione della riforma. Ha definito tre livelli di intervento: salari minimi per settore, ovvero applicazione dei contratti leader a tutti i lavoratori dei rispettivi settori, per dare prima risposta a lavoro povero; cuneo fiscale e decontribuzioni per sostenere le assunzioni stabili; meccanismi di premialità per sostenere la chiusura dei contratti scaduti da anni.
Dal lato del partito il segretario cerca da subito di valorizzare il risultato. «Bene la riapertura del dialogo sociale» è il commento che filtra a caldo, «è una giornata importante. Oggi si sono poste le basi per una reale svolta sul piano sociale, prefigurando soluzioni efficaci».
La giornata di Letta è lunghissima. Ha una lunga telefonata con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Alle tre e mezza sale a palazzo Chigi. Dal Nazareno viene fatto notare che le dichiarazioni del premier e quelle del segretario sono «sovrapponibili». Infine convoca per oggi i gruppi alla Camera, una sede istituzionale, scelta per dimostrare di essere il partito «della serietà». «Sarebbe incomprensibile aprire una crisi proprio mentre si avvia il processo storico di riscrivere l’agenda sociale del paese», viene spiegato al Nazareno. Quanto a Forza Italia e la Lega, e alla loro richiesta di verifica di governo, si taglia: «Hanno sequestrato per settimane il paese col pretesto surreale di un aumento immaginario delle rendite catastali e oggi scalpitano per 48 ore di confronto sui salari e il caro vita?». Il segretario è sincero con i suoi, e non è ottimista: «Noi ce la mettiamo tutta e faremo di tutto per evitare la crisi di governo». Ma, a questo punto, tocca a Conte.
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