- Dopo una sconfitta che ha portato il segretario uscente non solo a dimettersi, ma l’intero gruppo dirigente a mettere in discussione il partito stesso, sembra lunare che le due capogruppo vengano confermate.
- Ma in realtà non è sorprendente perché i gruppi parlamentari sono organi indipendenti che rispondono a logiche al loro interno spesso impermeabili alla volontà del segretario nazionale, in un modello ricalcato su quelli dei partiti britannici.
- Questa è stata la dannazione di molti segretari, ultimo Nicola Zingaretti, la cui consacrazione alle primarie non ha impedito ai gruppi parlamentari di logorarlo con una guerriglia interna. A questo punto o si prende atto che il segretario deve provenire da quei gruppi, ed essere un parlamentare, oppure si decide di creare dei contrappesi allo strapotere del partito parlamentare.
Dopo una sconfitta elettorale piuttosto pesante come quella subita dal centrosinistra italiano, che ha portato il segretario uscente non solo a dimettersi, ma l’intero gruppo dirigente a mettere in discussione la natura stessa del partito, arrivando a prospettare addirittura un cambio di nome, ecco in un panorama simile sembra piuttosto lunare che i gruppi parlamentari confermino alla loro guida le due stesse persone che li hanno guidati nella campagna elettorale che ha portato il partito ad una sconfitta tanto cocente.
Molti in queste ore sono rimasti sorpresi da questa scelta, soprattutto sui profili social di militanti e iscritti Pd. Per chi, come il sottoscritto, passa più tempo a seguire la politica britannica rispetto a quella italiana, la scelta non ha destato particolare sorpresa.
Il Pd, specie dopo la masochistica decisione di abolire il finanziamento pubblico ai partiti, ha accentuato la tendenza già innata nel suo “Dna anglosassone” di schiacciarsi sulle istituzioni e in particolare identificare il proprio gruppo dirigente con i propri gruppi parlamentari. Non a caso spesso l’avvicinarsi del congresso del Pd coincide con crisi istituzionali, la più clamorosa di tutte consumatasi durante l’elezione del Presidente della Repubblica nel 2013, quando nel segreto dell’urna dei grandi elettori si è svolta la parte più importante del congresso di successione a Pierluigi Bersani.
Ovviamente, ed è questo il punto, questa coincidenza tra gruppo parlamentare e gruppo dirigente non è stata codificata anzi: è resa ancora più complicata dalle primarie che eleggono l’assemblea nazionale e – di conseguenza – il segretario e la direzione nazionale.
Ma, come è stato ben chiaro a Nicola Zingaretti, anche una grande vittoria alle primarie non garantisce il vero controllo del partito, perché i gruppi parlamentari sono organi indipendenti che rispondono a logiche al loro interno spesso impermeabili alla volontà del segretario nazionale.
La lezione britannica
Questa dicotomia, per l’appunto, è piuttosto canonica nel sistema politico britannico. Il partito Laburista, membro della stessa famiglia politica del Pd, si contorce attorno a questo argomento da decenni, senza essere davvero mai arrivato ad una soluzione e ovviamente varie sensibilità all’interno del Labour hanno promosso soluzioni ed analisi diverse. Per la sinistra la battaglia è sempre stata quella di togliere il potere al gruppo parlamentare per trasferirlo alla base di iscritti, mentre la parte più moderata del partito, in virtù soprattutto della maggioranza che ancora conserva all’interno del gruppo parlamentare, ha sempre preferito che il controllo dell’indirizzo politico rimanesse sui banchi della Camera dei comuni.
Ovviamente questo conflitto ha generato spesso forti polemiche, la più clamorosa ovviamente fu quella tra Plp (parliamentary labour party) e Jeremy Corbyn nell’estate del 2016 quando la stragrande maggioranza del gruppo parlamentare chiese le dimissioni del Leader che però venne riconfermato a furor di popolo dagli iscritti.
Quello che però, in tanti anni di discussione sul tema nel Labour, a nessuno è mai venuto in mente di mettere in discussione, è il fatto che il Leader del partito dovesse essere selezionato all’interno del gruppo parlamentare. Certo, questo è dovuto al modello istituzionale britannico, ma anche al fatto che nessuno metteva in discussione dove, in ultima analisi, risiedesse veramente il potere politico del partito.
La tradizione italiana della prima repubblica è stata sempre molto diversa, ovviamente nessuno nel Pci, nel Psi ma neanche nella Dc poteva anche solo immaginare che i gruppi parlamentari potessero avere una volontà propria rispetto a quella della leadership di turno del partito.
Ma dalla nascita del Pd la dicotomia tipica anglosassone si è insinuata all’interno del Pd e come spesso capita quando si importa a freddo un modello estraneo alla propria tradizione, se ne sono importati quasi solo gli aspetti più deleteri.
La dicotomia è ancora cresciuta, come ricordavo poco sopra, con la fine del finanziamento pubblico, quando le quote dei parlamentari sono diventate una delle fonti principali di finanziamento del partito, aumentando in maniera ancora più evidente il potere dei gruppi parlamentari.
Chi comanda nel partito
A norma di statuto però si potrebbe fare una obiezione e cioè che spetta alla direzione il compito di stilare le liste elettorali, quindi quell’organo avrebbe la possibilità di cambiare radicalmente i gruppi parlamentari. I gruppi stessi hanno però posto rimedio a questo “rischio” assicurandosi che la direzione sia in larghissima parte composta dai parlamentari stessi. Prova ne sia che l’ultima direzione, quella incaricata di svolgere l’analisi del voto, sia stata convocata nella mattinata di un giovedì, rendendo nei fatti impossibile la partecipazione a (pochi) membri residenti fuori Roma o comunque non impiegati nel mondo della politica.
Alla luce di questa mia piccola analisi, dunque, sorprende poco che le due capogruppo siano state confermate, perché rappresentano una continuità di fatto all’interno di un gruppo dirigente costruito – legittimamente – per garantire la continuità di sé stesso.
Questo deve portare però il Pd ad interrogarsi su questo dato di fatto nel corso del prossimo congresso che, almeno questa sembra la volontà del gruppo dirigente, dovrebbe avere una natura costituente. Che senso ha mantenere in piedi questa dicotomia, questa ipocrisia se vogliamo, di attivare gigantesche macchine organizzative e mediatiche attorno alle primarie e alle varie fasi del congresso, quando poi l’organo centrale del potere rimane la compagine parlamentare del partito?
A questo punto non converrebbe prendere atto di quello che è ormai un fatto politico evidente e cambiare lo statuto facendo scegliere il segretario, quanto meno nella prima fase del congresso, tra e dai parlamentari come avviene nel Regno Unito? Quanti segretari devono essere “bruciati” sull’altare degli equilibri tra deputati e senatori?
Se invece si volesse invertire la tendenza, cosa che personalmente mi sento di auspicare per quel poco che conto, ci si deve innanzitutto interrogare su quali strumenti immaginare per pareggiare gli equilibri e ridare un potere reale agli iscritti che non sia solo quello di ratificare scelte fatte altrove.
© Riproduzione riservata