Domani conduce una inchiesta lunga un anno sul tema della disuguaglianza. Economisti o altri scienziati sociali interessati a contribuire a questo dibattito possono scrivere a stefano.feltri@editorialedomani.it e filippo.teoldi@editorialedomani.it


Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha spiegato che le scuole devono rimanere aperte perché altrimenti la disuguaglianza aumenta. Una spiegazione che ha lasciato sorpresi i più, visto che il dibattito sulle scuole si è finora concentrato sulle difficoltà degli insegnanti a gestire la didattica a distanza e sul problema dei genitori che, specie in assenza di smart working, non sanno come gestire figli impossibilitati ad andare in classe.

Delle conseguenze della chiusura delle scuole sugli studenti è sempre importato poco a tutti, a cominciare dai presidenti di regione, come Vincenzo De Luca in Campania, che cercano di tenere tutto chiuso il più possibile appena i casi di Covid risalgono.

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 10-01-2022 Roma Conferenza stampa del Presidente del Consiglio Mario Draghi Nella foto Mario Draghi Photo Roberto Monaldo / LaPresse 10-01-2022 Rome (Italy) Press conference by the Prime Minister Mario Draghi In the pic Mario Draghi

Draghi, invece, ha argomentato così la scelta di considerare la chiusura delle scuole l’ultima opzione, da adottare solo dopo aver chiuso tutto il resto: «Basta vedere gli effetti della diseguaglianza tra gli studenti causati dalla Dad per convincersi che questo sistema scolastico provoca delle diseguaglianze destinate a durare, che si riflettono su tutto il futuro della loro vita lavorativa, anche sul futuro lavorativo e salariale».

La differenza tra Draghi e De Luca è che Draghi conosce la ricerca economica disponibile sull’impatto della pandemia sulla formazione. Anche De Luca, però, a suo modo si comporta in modo coerente con i risultati di quelle analisi: in tutto il mondo i paesi che hanno tenuto le scuole chiuse più a lungo non sono stati quelli che hanno sperimentato il contagio più diffuso da coronavirus, ma quelli che avevano le scuole peggiori.

Studiare serve

Una analisi dell’Ocse, il centro studi dei paesi industrializzati, mostra che i paesi con punteggi migliori ai test internazionali Pisa nel 2018 sono anche quelli che hanno tenuto le scuole in funzione più a lungo nel 2020 (la variabile del punteggio Pisa spiega il 53 per cento della varianza nei giorni di scuola di chiusura).

Paesi come Turchia, Slovacchia e Colombia avevano punteggi bassi e hanno chiuso molto, Corea Finlandia, Norvegia, Francia e Germania avevano punteggi alti e hanno chiuso poco.

Già questo dovrebbe dare un indizio che chiudere le scuole esaspera disuguaglianze già presenti, invece che mettere tutti sullo stesso piano di fronte a un problema condiviso, come potrebbe sembrare a un’analisi superficiale.

L’Ocse ha cercato anche di stimare qual è il costo per i singoli studenti di perdere molti giorni di scuola e, di conseguenza, qual è l’impatto sull’economia.

In estrema sintesi il metodo è questo: il numero di giorni di scuola ha un impatto positivo sulle conoscenze e capacità degli studenti misurate da test standardizzati, a punteggi più alti in questi test corrispondono redditi più alti sul mercato del lavoro per tutta la durata della carriera lavorativa. Una maggiore quantità di studio, misurata in giorni di scuola, è correlata con redditi più alti successivi.

Questo è uno dei risultati più solidi della ricerca economica in materia, che è parecchia: ogni anno di scuola in più si traduce, in media, in circa il 10 per cento di reddito in più in molti paesi.

Ogni paese però è diverso, per tipo di imprese presenti e altre caratteristiche: alcuni remunerano competenze e conoscenze più di altri. A parità di bravura, un lavoratore migliore della media come conoscenze (una deviazione standard più della media nei punteggi) a Singapore ha un salario del 50 per cento superiore a quello medio, in Grecia soltanto del 14 per cento.

Studenti con conoscenze peggiori rispetto ai loro omologhi pre-pandemia avranno salari più bassi, e nel complesso l’economia crescerà meno (avrà un Pil più basso).

Il danno, quindi, sarà per loro in termini di compensi più bassi, ma anche per tutti gli altri, perché un Pil ridotto significa anche meno spesa pubblica e meno consumi.

Quanto perdono gli studenti

Secondo la stima di Eric Hanushek e Ludger Woessman in uno studio dell’Ocse, se il virus induce a perdere l’equivalente di metà anno di scuola, la perdita di reddito per uno studente sarà in media del 3,9 per cento del suo reddito futuro (si va dall’8,4 per cento di Singapore al 2,3 della Grecia e l’Italia assomiglia più alla Grecia che a Singapore).

Può sembrare poco, ma se facciamo un calcolo grezzo che non considera il valore del tempo e considera 1000 euro guadagnati domani uguali a 1000 euro guadagnati oggi, la perdita è rilevante: un ragazzo destinato a guadagnare 30.000 euro all’anno per 40 di carriera, si troverebbe a perdere 46.800 euro. In pratica per aver perso l’equivalente di mezzo anno di scuola nel 2020, dovrà lavorare a vuoto un anno e mezzo.

Se consideriamo il Pil dell’Italia, secondo il calcolo di Hanushek e Woessman la perdita dell’equivalente di un terzo di anno scolastico determina una perdita di 1.558 miliardi di euro, la perdita dell’equivalente di un anno intero (stima assai più realistica dopo due anni di pandemia) di 3,1 miliardi.

Questi sono gli effetti, quindi possiamo dire che sulla base della ricerca economica disponibile chiudere le scuole implica per molti ridurre il numero di ore dedicate allo studio e le competenze apprese, dunque minori redditi futuri.

Gli studenti sono destinati a una vita con meno soldi in tasca in paesi con economie più piccole per effetto della minor conoscenza disponibile e dei minori redditi generati. Saremo più poveri, insomma, ma anche più diseguali come dice Draghi?

I ragazzi più ricchi soffrono meno

La spiegazione sta nel fatto che gli studenti di famiglie più abbienti riescono a mitigare il danno molto più di quelle a basso reddito: hanno tecnologia migliore per fruire della didattica a distanza, spesso vivono in quartieri o città dove il reddito medio è più alto e gli insegnanti più bravi e flessibili, hanno genitori con le capacità per mandarli a lezioni private o vacanze studio all’estero quando la pandemia lo consente.

Questi studenti privilegiati subiranno meno danni: i ragazzi più poveri saranno meno capaci e avranno redditi più bassi, quelli più ricchi subiranno un danno educativo inferiore e proteggeranno meglio i loro redditi futuri.

La scuola, così, invece che livellare le disuguaglianze, negli anni del Covid finisce per accentuarle, con effetti che dureranno decenni e sono assai difficili da correggere.

Nessuno, nemmeno Draghi, si è posto una questione cruciale: come indennizzare gli studenti per le conoscenze perse. La normalità, che è quanto sta cercando di garantire il governo, non basta.

Gli squilibri si sono già accentuati e servirebbe una spinta per bilanciarli, restituendo tempo di studio a chi lo ha perso e ne ha più bisogno. Ma finora nessuno lo sta facendo. Ci sarebbe il Pnrr e i 209 miliarid di fondi europei, ma la priorità sono infrastrutture di cemento che non restituiranno ai ragazzi le ore di studio che hanno perso. 

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