- Il neo segretario del Pd Enrico Letta si preoccupa di dare una più nitida immagine del suo partito, intervenendo sui più vari temi dell’agenda politica. Colpisce, però, l’assenza di qualsiasi riferimento all’etica pubblica, come moderna lotta alla corruzione.
- Dopo gli “anni ruggenti” dell’anticorruzione e della cultura della legalità che hanno coinciso con la presidenza di Raffaele Cantone all’Anac, è in atto una massiccia e sistematica opera di rimozione.
- È possibile oggi parlare di un’”etica pubblica” come complesso di misure di prevenzione dei rischi di corruzione? È possibile concepire questa come una moderna politica pubblica, senza evocare impropri ritorni al giustizialismo? Anche a queste domande dovrebbe rispondere un partito “europeista e riformista”.
Il neo segretario del Pd Enrico Letta si preoccupa di dare una più nitida immagine del suo partito, intervenendo sui più vari temi dell’agenda politica. Colpisce, però, l’assenza di qualsiasi riferimento all’etica pubblica, come moderna lotta alla corruzione.
Dopo gli “anni ruggenti” dell’anticorruzione e della cultura della legalità che hanno coinciso con la presidenza di Raffaele Cantone all’Anac, è in atto una massiccia e sistematica opera di rimozione. Anche le recenti entusiastiche reazioni di parti significative della nostra stampa alle assoluzioni per il caso Eni-Nigeria e Rixi-regione Liguria, di fronte a fatti accertati, per i quali era semmai in discussione la qualificazione ai fini della sussistenza di un reato, sono il segno evidente della ripresa di fiato di un mondo che si autodefinisce garantista, ma in realtà predica l’immunità per pezzi importanti del settore pubblico e della politica. Al grido di “così fan tutti”, una folta schiera di osservatori agisce, più o meno consapevolmente, per distruggere quanto, tra tante resistenze, si è tentato di fare negli ultimi anni.
Il caso dell’Anac è tra i più significativi. La nuova politica di lotta alla corruzione e la stessa creazione dell’Autorità si fondano sull’idea che non bisogna attendere che il danno della corruzione si sia prodotto, ma che bisogna prevenirlo, agendo sull’organizzazione delle nostre amministrazioni, conciliando funzionalità delle istituzioni, efficacia e imparzialità dei loro atti. Un’idea da tempo al centro delle convenzioni internazionali (quelle stesse convenzioni che nascono per combattere la corruzione internazionale, cancro della fair competition tra stati), cui l’Italia aderisce al fine di innovare profondamente la qualità della prevenzione della corruzione.
Tutta l’azione dell’Anac è volta a aiutare le amministrazioni in un’opera di prevenzione che deve guardare alla sostanza e non alla forma, evitando adempimenti solo burocratici e moltiplicazione di controlli inutili.
I risultati ci sono: la qualità dei piani anticorruzione continua a migliorare; per le amministrazioni più innovative le misure di prevenzione sono state un’occasione per ripensare alla propria organizzazione precedente, spesso viziata dal formalismo di fondo della cultura media dei pubblici dipendenti. L’obbligo di pubblicare dati e documenti pubblici ai fini di trasparenza sta imponendo un’attenzione nuova ai processi di digitalizzazione delle amministrazioni. Il giudizio internazionale sull’Italia e sull’Autorità è stato estremamente positivo.
Il preconcetto
Eppure si sono moltiplicati interventi segnati da atteggiamenti preconcetti di condanna, facendo così l’occhiolino a quanti, soprattutto nella politica, continuano a resistere a un’opera di prevenzione seria: le fondazioni politiche continuano a drenare finanziamenti per spezzoni di partiti senza nessuna trasparenza; grandi società in controllo pubblico in quanto quotate fanno poca anticorruzione e poca trasparenza; i doveri di comportamento e la prevenzione del conflitto di interessi sono avanzati presso i funzionari pubblici, ma per i funzionari politici e grandi commis pubblici si fa poco o nulla.
Insomma: è possibile oggi parlare di un’”etica pubblica” come complesso di misure di prevenzione dei rischi di corruzione e di una “competenza etica” che va rafforzata nei funzionari pubblici e verificata anche nelle politiche di reclutamento e di formazione professionale, di cui tanto si parla a proposito del Next Generation Eu? È possibile concepire questa come una moderna politica pubblica, senza evocare impropri ritorni al giustizialismo o alla caccia alle streghe?
Anche a queste domande dovrebbe rispondere un partito “europeista e riformista” che voglia fare dell’Italia un laboratorio di eccellenza e non l’ultimo vagone del convoglio europeo.
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