Nella spedizione punitiva degli agenti penitenziari a Santa Maria Capua Vetere è stato preso a manganellate anche un detenuto in carrozzina. Un testimone:«Ho visto il video degli abusi»
- Il sei aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere circa trecento poliziotti hanno picchiato i detenuti. Ci sono almeno un centinaio di indagati, incastrati dai racconti di chi ha subito le violenze e dai video in possesso dei magistrati
- Gli agenti picchiatori provenivano da altri istituti. Gli interni assistevano hanno assistito immobili. Il testimone ha riconosciuto la commissaria di reparto. «Guardava mentre ci riempivano di botte»
- Ma chi ha ordinato quella perquisizione? «Io ho mandato gli uomini di supporto, le perquisizioni vengono disposte dai vertici dell’istituto», dice Antonio Fullone, provveditore regionale, indagato nell’inchiesta.
«Ricordo che c’era anche un detenuto sulla sedia a rotelle. Anziano e diabetico. Hanno colpito con il manganello anche lui. Di questa violenza c’è il video, l’ho visto». A parlare è l’ex detenuto che, insieme ad altre decine di persone, ha presentato denuncia per i fatti avvenuti, il 6 aprile, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Il testimone, uscito dal carcere, racconta quanto accaduto e i video che ha visto durante l’interrogatorio al quale è stato sottoposto.
Il 6 aprile scorso, un contingente di trecento agenti della polizia penitenziaria, provenienti da altri istituti di pena, è entrato nell’istituto e ha picchiato i detenuti.
«Le guardie manganellavano quel disabile e gli urlavano: “ti mettiamo il pesce in bocca, non conti nu cazzo qua dentro e neanche fuori”». Il detenuto in sedia a rotelle, legato a un clan perdente della camorra, è stato colpito sulle braccia nonostante la disabilità. Il pestaggio è documentato anche da un video agli atti dell’indagine.
Ci sono anche immagini di reclusi inginocchiati, trascinati, picchiati da quattro, cinque poliziotti. Il testimone ha ricostruito anche la catena di comando e chi c’era quel giorno.
Un detenuto morto
L’ex detenuto, quando è stato ascoltato dai magistrati della Procura di Santa Maria Capua Vetere, ha visto un album fotografico per riconoscere gli agenti presenti. «Molti erano coperti dal casco, ma uno di quelli che mi ha picchiato l’ho riconosciuto perché aveva gli occhi chiari, era esagitato e ci sfidava, è quello che ha colpito lo zio, così chiamavano il disabile». Uno degli agenti aveva i guanti rossi, l’hanno ribattezzato «l’animale».
«Picchiava forte, era incontrollabile», dice il testimone. Molti avevano i volti coperti, tranne gli agenti interni. Il testimone ha riconosciuto, per esempio, la commissaria di reparto. «Guardava mentre ci massacravano, ma non interveniva, un ragazzo detenuto di vent’anni mi ha detto “poteva essere mia madre, ma non ha mosso un dito”».
Gli interni erano presenti, ma assenti: «Alcuni ci dicevano “questi sono i fanatici, abbassate la testa e incassate”».
Emergono così altri particolari inquietanti su quella giornata. C’è il caso di un detenuto che viene pestato e, successivamente, messo in isolamento. Era già malato, è morto a inizio maggio, un mese dopo la galleria degli orrori. Quella perquisizione straordinaria era finalizzata anche alla ricerca di oggetti contundenti, presumibilmente usati nelle proteste dei giorni precedenti. E qui si apre un altro capitolo dell’inchiesta, quello cioè relativo a un possibile depistaggio delle indagini subito dopo i fatti.
Quel 6 aprile, come emerso da alcune ricostruzioni a difesa degli agenti, sarebbero stati trovati anche bastoni. «Non è vero», racconta il testimone, «noi non avevamo niente, abbiamo solo subito, sono le classiche “pezze d’appoggio” per giustificare gli abusi, ad alcuni detenuti hanno tagliato le barbe, il massimo dell’umiliazione».
Nei video, ha ricostruito il testimone, si vedono gli stessi detenuti che, il giorno prima, durante la protesta rimettono in ordine le sedie. Nessuna traccia di bastoni. C’è anche un altro episodio, relativo proprio ai video del circuito di sorveglianza, che amplia il capitolo dei possibili falsi.
«Quello che ho notato quando ho visto i video è che non disponevano delle immagini di alcune videocamere, alcune erano spente», dice il testimone. Vista la violenza dell’azione, in molti, tra gli agenti, ritenevano che quel sistema di videosorveglianza fosse spento o comunque neutralizzabile. Il sequestro di tutti i video eseguito dai carabinieri ha vanificato ogni eventuale tentativo.
Quei video sono ora nelle mani dei pubblici ministeri e sono una prova determinante. Sarà la procura di Santa Maria Capua Vetere ad accertare possibili falsi e calunnie, sulla base delle decine di video, ma anche del materiale che proviene dal sequestro dei telefoni di alcuni agenti, eseguito lo scorso giugno.
La catena di comando
Ma chi ha ordinato quella perquisizione? «Io ho mandato gli uomini di supporto, le perquisizioni vengono disposte dai vertici dell’istituto», spiega Antonio Fullone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Il direttore del carcere, però, quel giorno non c’era, per problemi di salute.
In carcere c’era il comandante della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, Gaetano Manganelli, anche lui indagato, e trasferito successivamente in un altro istituto di pena, quello di Secondigliano.
Fullone, che non era presente durante l’irruzione degli agenti, è indagato, ma non vuole rispondere alle domande perché «c’è un’indagine in corso». «Comunque sono sereno, accertare la verità è un bene per tutti», dice. Della perquisizione, precisa Fullone, è stato informato il vertice del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’epoca guidato dal magistrato Francesco Basentini, che non è coinvolto nell’indagine.
«Quelli che picchiavano venivano da fuori, da altri istituti: erano coperti con mascherine, foulard, caschi», dice il testimone. Decine di detenuti hanno riportato traumi di ogni genere, ma subito dopo il pestaggio in carcere i detenuti sono rimasti rinchiusi in cella. «Io non ho potuto chiedere la visita medica, bisognava aspettare, minimo quindici giorni. Un mio amico, al quale hanno spaccato il labbro, non ha potuto neanche denunciare perché è ancora dentro. Nei giorni successivi si è instaurato un regime di silenzio».
La sua testimonianza, come quella di un’altra cinquantina di detenuti, è agli atti dell’indagine. Un’inchiesta giudiziaria che deve appurare le responsabilità della catena di comando, eventuali depistaggi e gli autori che hanno firmato questa pagina degli orrori.
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