- Populismo è un concetto, estrapolato da esperienze storiche, che può servire come aggettivo ma reificato come sostantivo, dice poco, anzi nasconde i problemi.
- La classe dirigente italiana è sempre stata prodiga di atteggiamenti populisti, da Benito Mussolini che falcia il grano, a Bossi che esibisce un gergo da trivio. Berlinguer, Pertini o Cossiga possono non piacere, ma sono altra cosa.
- Se la loro fu una «fuga in avanti», conviene capirne cause e condizioni, e domandarsi se la coralità resistenziale era la soluzione o il problema. L’intesa costituente aveva infatti realizzato un delicato equilibrio, salvifico nella drammatica congiuntura del Dopoguerra, ma poi sfociato nel consociativismo.
Due validi rappresentanti dell’ultima generazione dei partiti storici, Marco Follini, solide basi democristiane, classe 1954, e Gianni Cuperlo, solide basi comuniste, classe 1961, hanno confrontato giorni fa su Domani le loro visioni degli anni Settanta. Il primo, amaramente, ha evocato l’incapacità dei partiti di risolvere una «crisi di sistema» e lì ha visto l’origine di una «fuga in avanti», della «ricerca di scorciatoie» nella demagogia che vede nei messaggi di Sandro Pertini, nella questione morale di Enrico Berlinguer, nelle picconate di Francesco Cossiga, e fino alla rottamazione di Matteo Renzi.
Cuperlo invece difende quella stagione; elenca le molte riforme portate a termine in quegli anni, nel campo dei diritti (dagli asili nido all’obiezione di coscienza all’aborto, e ovviamente al divorzio) o dell’attuazione costituzionale con l’istituzione delle regioni. Segno, quelle riforme, non certo di un disarmo dei partiti, afferma Cuperlo, ma di un «dialogo vivo con una società carica di spinte» e delle capacità mostrate dalle culture resistenziali e del compromesso costituzionale. Visioni diverse – o forse due lati della stessa medaglia – che in effetti vale la pena di confrontare.
Una parola ubiqua
Ma è difficile farlo se si appende tutto ciò al “populismo”. Oggi populismo è parola così ubiqua, onnipresente, che non ci si domanda più cosa significhi. A evocarla troppo si rischia di ricalcare Peppino quando ripete ho detto tutto, e non ha detto niente. Perché come succede a tanti altri ismi, populismo è un concetto, estrapolato da esperienze storiche, che può servire come aggettivo (un orientamento, un atteggiamento populista) ma reificato come sostantivo, fattone un attore sulla scena politica quasi fosse un movimento, dice poco, anzi nasconde i problemi.
La letteratura sul tema del populismo, fattasi alluvionale, ne parla come di un atteggiamento, di un discorso, di una inclinazione. Che esalta la comunità, una comunità immaginaria, originaria, radicata nel passato, feconda di virtù e di purezze che si immaginano incontaminate. È dunque un atteggiamento nostalgico, moralistico, anti intellettuale. È antipolitico, ostile ai partiti, rifiuta i valori della distinzione, del pluralismo, e dunque della democrazia liberale. È insomma una ideologia dell’antiideologico. E poiché tende a immaginare un “noi” opposto a un loro (che sia di classe, etnico, linguistico) è nazionalistico, o, come si suol dire oggi, “sovranista”.
Atteggiamenti consimili testimoniano le grandi crisi di passaggio. Accompagnano ad esempio la modernità politica, quando i grandi numeri arrivano sulla scena, e succede che un uomo, un leader, si fa diretto sostenitore delle esigenze del popolo al di là delle alchimie della politica politicante.
Nell’Ottocento i napoleonidi sono stati i primi ad assumere atteggiamenti populisti. Premevano d’altra parte le trasformazioni sociali, in particolare nei grandi spazi rurali, come quando, abolita la servitù della gleba in Russia, gli intellettuali di città andavano verso il popolo, come succedeva ai narodnicky russi – appunto i primi populisti – che coltivavano il mito delle comuni contadine, fucina di virtù incontaminate. Ad andare verso il popolo ci provarono anche da noi i giovani finalmente ammessi all’istruzione superiore, seguendo Mao e il suo libretto rosso fino alla “rivoluzione culturale” distruttiva di ogni cultura urbana.
L’indebolimento dei partiti
Per circa un secolo, tra Otto e Novecento, simili crisi di trasformazione sono state filtrate, contenute, organizzate dai partiti. I “populismi” di fine 900 sono dunque l’altro aspetto dell’indebolimento dei partiti – fenomeno di per sé comune a tutte le democrazie moderne. In Italia c’è stato in effetti un momento, tra 900 e 2000 in cui di fronte al subitaneo crollo dei partiti storici, e poi di fronte a Umberto Bossi o a Silvio Berlusconi gli accademici europei hanno considerato l’Italia il “paradiso del populismo”.
Da allora si dilatarono gli spazi dell’antipolitica pura, che peraltro aveva buone radici nel costume nazionale. Certo, la classe dirigente italiana è sempre stata prodiga di atteggiamenti populisti, da Benito Mussolini che falcia il grano, a Bossi che esibisce un gergo da trivio, a Beppe Grillo che urla vaffanculo, a Matteo Salvini che chiede pieni poteri a torso nudo. Berlinguer, Pertini o Cossiga possono non piacere, ma sono altra cosa.
Se la loro fu una «fuga in avanti», conviene capirne cause e condizioni, e domandarsi se la coralità resistenziale era la soluzione o il problema. L’intesa costituente aveva infatti realizzato un delicato equilibrio, salvifico nella drammatica congiuntura del Dopoguerra, ma poi sfociato nel consociativismo, o gioco delle parti, tra le supreme arti di mediazione centrista della Dc – la patria di Follini – e la non minore abilità togliattiana di un Pci – la patria di Cuperlo – mai ammesso al governo ma capace di governare dall’opposizione.
Quando Cuperlo, elogiando in quegli anni la capacità di «favorire uno sbocco legislativo per la domanda di modernizzazione» incidentalmente sottolinea che «parecchie tra le norme citate vennero approvate da schieramenti parlamentari più ampi delle sole maggioranze a sostegno dei governi in carica», tocca un punto essenziale del compromesso consociativo. Inadatto per definizione a formulare programmi chiari, creduti e contrapposti, come vorrebbe una “democrazia compiuta”, quella convergenza di lontana origine resistenziale finì per far assumere all’attività legislativa un carattere settoriale e corporativo destinato ad accentuarsi con il tempo, a dilatare la spesa pubblica, a soddisfare ogni spinta, a evitare ogni scelta, fino a corrompere la politica stessa.
Si dilatarono così gli spazi dell’antipolitica pura. Prese piede l’elogio incolto di una democrazia diretta, referendaria e digitale, anch’essa incapace di esprimere un progetto politico qualsivoglia. Superata la congiuntura, i mali sono rimasti, come mostrano oggi il navigare a vista dei Cinque stelle – i Cinque stelle di un ambientalismo naturista finto idealista, mai realistico – e di una Lega legata agli interessi di bottega, qui e ora.
Se vogliamo assumere Follini e Cuperlo come eroi eponimi di una vicenda politica, ultimi testimoni pensanti di un dramma storico, potremmo dire che Follini, vista spegnersi la sapiente mediazione centrista di cui era capace il suo partito, ha perso l’orientamento, onestamente divagando tra il centrodestra berlusconiano e il Pd fino a definirsi “ex politico”, mentre Cuperlo, di qualche anno più giovane, nato già vaccinato, ha potuto rimanere immobile nella casa madre che cambiava arredamento, e cerca di salvare il salvabile evocando i fasti di una antica coralità resistenziale che forse non era la soluzione, ma il problema. Comunque onore al merito a entrambi.
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