Nell’Assemblea costituente Benedetto Croce invocò il “Veni Creator Spiritus”, in questi giorni le votazioni al Senato sulla riscrittura della Costituzione procedono invece tra gli strafalcioni lessicali, le risse in aula, i gestacci della ministra Maria Elisabetta Alberti Casellati, già seconda carica dello stato e candidata al Quirinale. Un dibattito all’altezza, o meglio alla bassezza, del testo in discussione.

Intanto nel paese si prepara, in vista del 2 giugno, una inedita Festa della Repubblica. Per citare alla rinfusa qualche iniziativa: al museo della Liberazione di via Tasso ci sarà per due giorni il Festival della memoria e della Liberazione, il 2 giugno coincide quest’anno con gli ottant’anni dalla liberazione di Roma del 4 giugno 1944, con un panel dedicato alla Costituzione con Gaetano Azzariti.

Alla Città dell’altra economia la festa dell’Anpi romana “Roma libera e antifascista”. A Casa Cervi in Emilia (dove un mese fa furono aggrediti un volontario e una dipendente dell’istituto per rapinare l’incasso del 25 aprile) ci sarà una festa che si preannuncia affollatissima, con la presidente Albertina Soliani e Rosy Bindi che fu la prima, mesi fa, a lanciare l’idea di promuovere i Comitati per la Costituzione, su modello di quelli creati da Giuseppe Dossetti trent’anni fa, nel 1994.

La coincidenza della festa repubblicana, degli anniversari del 1944, che per Roma fu la liberazione ma per il Centro-Nord marcò le stragi nazifasciste più efferate (Fossoli, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto), e anche dell’ultima settimana della campagna per le elezioni europee (ci sarà anche la manifestazione del Pd di Elly Schlein a Roma nel quartiere Testaccio) impatta sul rito repubblicano della festa nazionale, con una mobilitazione inedita che ha un obiettivo minimo comune. Preparare un argine a quel progetto governativo di riscrivere la Costituzione che si muove su tre gambe.

Tre gambe

La prima è il premierato, l’elezione diretta del premier. La seconda è l’autonomia differenziata, il disfacimento del principio di solidarietà tra le regioni. La terza è la riforma della Giustizia, ieri presentata dal ministro Carlo Nordio.

Ecco, mentre Giorgia Meloni sulla riforma della Costituzione che la sua maggioranza sta votando al Senato si muove tra il tradizionale «Me ne frego» e il più di nuovo conio «Chissenefrega» («Se perdo il referendum chi se ne importa, non mi dimetto»), c’è un pezzo di Italia che si sta già mobilitando in difesa della Costituzione. Comitati, sindacati (a partire dalla Cgil), giuristi, intellettuali e giornalisti (la rete È sempre 25 aprile di Massimo Giannini), una parte consistente del mondo cattolico.

È l’embrione di un futuro fronte del No al referendum confermativo che scatterebbe in caso di approvazione della riforma in parlamento senza maggioranza di due terzi (in questo momento molto remota)? Per ora è qualcosa di meno, ma anche qualcosa di più. Non è un’organizzazione, e neppure un soggetto politico, ma intanto è l’espressione di un sentimento: qualcosa di cui non si può non parlare, di cui non si può tacere.

L’intervento di Segre

La prima a rompere il silenzio è stata la senatrice a vita Liliana Segre nell’aula del Senato il 14 maggio. Con un intervento a sorpresa, tutto centrato sulla fedeltà all’ispirazione originaria della Costituzione e molto ben affilato sul piano giuridico.

«Vedo due rischi opposti: il primo è quello di produrre una stabilità fittizia nella quale un presidente del Consiglio cementato dall’elezione diretta deve convivere con un parlamento riottoso, in un clima di conflittualità istituzionale senza uscita; il secondo è il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del presidente eletto attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere, al di là di ogni ragionevolezza, le libere scelte del corpo elettorale».

E poi la denuncia del pericolo di un capo dello stato eletto in ticket con il premier, fino all’affondo finale: «Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate».

La nota della Cei

Una settimana dopo, il 22 maggio, è arrivata la nota della Conferenza episcopale sull’autonomia differenziata. «Il progetto di legge in discussione rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica», scrivono i vescovi italiani.

«Tale rischio non può essere sottovalutato, in particolare alla luce delle disuguaglianze già esistenti, specialmente nel campo della tutela della salute, cui è dedicata larga parte delle risorse spettanti alle Regioni e che suscita apprensione in quanto inadeguato alle attese dei cittadini sia per i tempi sia per le modalità di erogazione dei servizi».

Il giudizio sul premierato è stato anticipato dal presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi: «Gli equilibri istituzionali vanno toccati sempre con molta attenzione. È necessario tenere presente lo spirito della Costituzione, scritta da forze politiche non omogenee che però avevano di mira il bene comune. L’auspicio è che emerga qualcosa che non sia contingente, non sia di parte». Esattamente l’opposto di quanto sta accadendo al Senato.

Il quotidiano Avvenire ha picchiato duro sulla svolta «caciarona e popolana» della premier e del suo chissene: «Un soffio che tramuta “la madre di tutte le riforme” in poco più di un capriccio. Resta un senso di spaesamento davanti allo spessore di questa argomentazione, di fronte a un intervento così vitale per il futuro del Paese».

Mentre si moltiplicano i segnali di preoccupazione delle principali associazioni, dall’Azione cattolica alle Acli alla Comunità di Sant’Egidio, che anticipano l’appuntamento più importante, la Settimana sociale dei cattolici in Italia a Trieste dal 3 al 7 luglio, intitolata in modo significativo “Al cuore della democrazia”, che nel progetto del cardinale Zuppi rappresenta, come si legge nel documento preparatorio, «un nuovo inizio» della presenza sociale e politica dei cattolici, «come se fosse una ripartenza».

E da una delle più autorevoli testate del mondo ecclesiale, la rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica, è arrivato due giorni fa anche il no alla riforma dell’ex presidente della Corte costituzionale ed ex ministra della Giustizia Marta Cartabia: «Affidare alla capacità del leader la tenuta e la durata nel tempo di un governo è una semplificazione molto rischiosa. Si viene a svuotare il ruolo del presidente della Repubblica, che è stato fondamentale nella storia recente del nostro paese».

La posta in gioco

Sono prese di posizione che smentiscono il grande alibi della maggioranza di destra, «È una riforma minimale», e svelano la posta in gioco, riscrivere la Costituzione e consegnare alla storia il suo momento fondativo, la Resistenza.

Non arrivano da figure tradizionalmente legate alla sinistra, semmai il filo comune va ricercato nella visione e nella cultura della Costituzione di Sergio Mattarella, ribadita dal presidente della Repubblica anche nel discorso del 28 maggio a Brescia, per il cinquantesimo anniversario della strage.

Il capo dello stato non è finora intervenuto direttamente sul merito della riforma del premierato, e neppure sul metodo. Nel 2016, all’epoca del referendum Renzi, mantenne un rigoroso atteggiamento super partes, un capitale di fiducia che tornò molto utile nella travagliata fase successiva.

Ma il progetto Meloni è molto più invasivo di quello Renzi, tocca il cuore del congegno costituzionale, i rapporti tra il capo del governo, il parlamento e il presidente della Repubblica.

Non esistono interpretazioni autorizzate del pensiero di Mattarella in materia, in assenza di prese di posizioni esplicite. La novità, come ha più volte scritto Rino Formica su Domani, è anche che non si può immaginare una riforma della Costituzione nazionale senza un contesto europeo. E dunque, ancora una volta, tutto si tiene in questo 2 giugno di vigilia elettorale europea e di un cambio della Costituzione di cui si intuisce più il pasticcio che la solennità. Ma anche l’inizio di una mobilitazione di quel pezzo di Italia che non è disposta a dire “chissenefrega” se si strappa la Costituzione repubblicana e antifascista.

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