Per una serie di circostanze abbastanza difficili da spiegare ho partecipato di persona ad entrambi gli incontri ufficiali di presentazione delle candidature alla segreteria del Pd, quello di Stefano Bonaccini a Campogalliano e una settimana dopo quello di Elly Schlein al Monk di Roma. Si tratta di una competizione ormai non solo interna al partito che viene vissuta come una sorta di derby emiliano tra due persone che per postura, lessico, storia politica e argomenti proposti non potrebbero essere più diverse. Due soggetti che in qualche forma, anche mistica per alcuni tratti comunicativi, cercano di incarnare le diverse anime di un partito la cui identità ideale pare smarrita da secoli in mille rivoli la cui portata appare scarica quanto il Po nel luglio scorso.

Campogalliano e Monk

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Nella chiesetta sconsacrata di Campogalliano, il paese tra Modena e Carpi da cui proviene Bonaccini, il presidente della regione Emilia - trattino - Romagna ha scelto di rivendicare le sue origini di uomo di sinistra che si è formato sull’esperienza del Pci locale, il Partito comunista modenese utramigliorista che negli anni Ottanta spesso in queste lande superava a destra gli austeri socialdemocratici tedeschi di Willy Brandt.

La ragione di quelle scelte così poco fedeli alla linea erano il frutto di un impetuoso sviluppo economico e di un benessere collettivo oggi impossibile anche solo da immaginare, pur nel coscienzioso rispetto, a parole, del centralismo democratico. Un centralismo che all’epoca non avrebbe permesso a nessun dirigente emiliano di diventare segretario del Partito, riservando alle federazioni di Reggio Emilia, Modena e Bologna l’onore della Festa nazionale de l’Unità e il compito, a volte complicato, di trovare risorse per finanziarne il sostentamento. Dall’altra parte, in un club underground della periferia romana come il postmodernissimo Monk, una donna (giovane per gli standard italiani) dal curriculum parecchio diverso dal dirigente medio dem, parlava di cose che raramente nelle priorità dei governi di variopinta coalizione nostrani si sono affacciate. Diritti civili, diritti sociali, lavoro, clima, pari opportunità e altro ancora esposti con una certa credibilità di fondo, vuoi per la generazione rappresentata dalla sua storia vuoi perché l’uscita dal Pd ultrarenziano in quota Civati prima e solitaria poi rendono difficile incolparla di Jobs act e altre imprese della compagnia cantante toscana.

Semplificazioni

Mentre Bonaccini e il suo backstage di pubblici amministratori, cooperatori, militanti antichi e contemporanei calvalcano una base in cui gli iscritti e le iscritte sono figure quasi mai di ceto debole e non garantito, Schlein sembra voler parlare a chi nel Pd ha visto in questi anni una sostanziale deriva verso lidi che chiamare socialisti farebbe agitare l’anima di Olof Palme, il quale di certo non è morto per vedere questi risultati nel mondo del poi. Capiamoci, al Monk non c’erano né la gioventù dei cortei Fridays for Future, né i sindacalisti Cobas e descrivere Elly Schlein come una pericolosa sovversiva è solo il vezzo di una destra che per non dipingere gli avversari in modo macchiettistico pretenderebbe che fossero come questa destra appare a chi di destra non sarà mai: brutta, rifatta, sempre la stessa e sempre ottusamente cattiva.

Per la variegata stampa ultraconservatrice italica o sei come Minniti o sei comunista, perché semplificar gli è dolce in questo mare. Per inciso Minniti del Pci fu un dirigente importante e del resto nessuno chiede mai a Paolo Gentiloni se sia per caso mai stato comunista, eppure non solo lo era, ma in gioventù militava addirittura nei collettivi maoisti. Come abbia fatto a nascondercelo resta un mistero, ma siccome a ripescarlo dal dimenticatoio ci andò Rutelli forse non è del tutto sorprendente che per molti il nostro ministro europeo sia un ex democristiano. Niente di più falso: Paolo Gentiloni è di origini marxiste, solo che nessuno se n’è accorto.

Ma torniamo all’incontro pubblico al Monk di Elly Schlein, luogo in cui le novità che si sono respirate sono evidenti: pochissimi pezzi di apparato e rari i parlamentari, peraltro defilati (tra i pochi segnalo un serissimo Peppe Provenzano), un bel pezzo di società civile e una parte di Pd che, soprattutto a Roma, pare parecchio spaesato dalla mancanza di punti di riferimento dopo le varie vicissitudini dai tempi di Marino in poi. Basti guardare come sui social la figura di Schlein sia polarizzante: dal “sembra Renzi in gonnella, meglio Conte” al “sei l’ultima possibilità per questo partito allo sbando” fino agli inevitabili “porterà il Pd al 4 per cento”, che spesso viene detto da chi spera di prenderne i voti come fece a suo tempo Salvini coi Cinque stelle e da chi il Pd non lo ha mai votato o non lo voterà mai comunque.

Scommessa utopistica

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Le cose forse sono più semplici di quanto sembri: Bonaccini punta a conquistare il Pd sapendo che l’elettore dem standard vede in lui una figura rassicurante, in continuità col passato ipergovernista e spendibile per i buoni successi come pubblico amministratore, mentre Schlein ha come orizzonte un pezzo di società che è sottorappresentata, senza punti fermi, con pochi diritti e troppi e talvolta gravosi doveri e che ha smesso di votare o vota con tristezza quello che c’è.

La scommessa, quasi utopistica, è di portare quel mondo a rivolgere di nuovo lo sguardo verso il Pd smettendo di vederlo come qualcosa di altro da sé ma come uno strumento in qualche modo utile per cambiare lo stato di cose esistente. Che le due opzioni siano quanto di più diverso questo partito abbia mai proposto nella sua non breve esistenza mi pare evidente.

Se alla fine Schlein prevalesse ci troveremmo nella curiosa situazione in cui una donna che è entrata nell’assemblea regionale emiliana nel 2020 con il 3,77 per cento (tre virgola settantasette) della sua lista Coraggiosa esattamente tre anni dopo si prende tutto il Pd. Non ci crederete, ma forse c’è vita perfino nel partito che ha governato per anni fingendosi morto. Godetevi l’attimo.

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