- Il figlio del presidente della regione Campania annuncia «resistenza democratica» contro la segretaria.
- I nuovi incarichi per l’ufficio di presidenza del gruppo Pd di Montecitorio vengono votati all’unanimità. Ma stavolta Guerini, Fassino, Madia e altri non partecipano. E contestano apertamente la scelta. Anche Orfini non vota.
- La segretaria Schlein va via prima del dibattito, e non ascolta gli interventi contro la scelta di “demansionare” l’ex vicepresidente vicario.
«Vendetta trasversale». Nel Pd dei malumori ovattati, consegnati ai retroscena e raramente rivendicati a viso scoperto, arriva una formula tagliente, quella con cui ieri Piero De Luca, appena declassato da vicepresidente vicario del gruppo alla camera a segretario, ha definito la sua vicenda. Che, scrive in un post in serata, «ha assunto un significato politico-simbolico ben superiore ai destini dei singoli»; le logiche prevalse per il suo demansionamento, scrive, «non sono state fondate né su dinamiche politiche, né sulle competenze, né sul contributo al lavoro parlamentare, ma risentono di scorie ancora non smaltite delle ultime primarie. Si è consumata una sorta di vendetta trasversale che non fa onore». Il Pd, conclude, deve «rilanciarsi parlando di temi», deve «parlare di qualcosa» - qui l’allusione all’afasia della segretaria è scoperta – «non lavorare contro qualcuno; impegnarsi per aggregare e costruire, non disgregare o distruggere», «ma forse ad alcuni di rafforzare il partito interessa davvero poco».
Un’accusa pesante: non lavorare per il successo della Ditta. Non uno strappo, forse non ancora. Di certo è il primo dissenso esplicito al Pd di Elly Schlein. Fin qui le minoranze interne avevano silenziato, più o meno, l’«umiliazione» inflitta dalla leader, che a parole ha proposto la gestione unitaria del Pd ma nei fatti ha chiamato in segreteria solo quattro esponenti riformisti su venti. Poi ha imposto due “suoi” alla guida dei gruppi, Chiara Braga alla camera e Francesco Boccia al senato. La composizione degli uffici di presidenza di camera e senato è stata trascinata fino a ieri, alla ricerca di un accordo che Schlein non ha voluto, proprio il ruolo di Piero De Luca, figlio di Vincenzo, presidente della Campania in odore di scissione, il quale vorrebbe per sé la possibilità di correre per il terzo mandato in regione, che Schlein non ha accordato.
Anzi Schlein a sua volta lo ha subito bollato fra i «cacicchi e capibastone» da ridimensionare, dopo aver commissariato il Pd regionale. Nel frattempo c’è stata la sconfitta alle amministrative: le offerte di “aiuto” e le richieste di ascolto alla segretaria sono arrivate a mezzo stampa da esponenti autorevoli del partito, senza esito. Ma la segretaria è stata praticamente costretta a convocare una direzione in tempi più brevi di quanto non avesse in programma.
Ieri a Montecitorio i gruppi di camera e senato si sono riuniti per discutere del decreto lavoro. La segretaria era presente, ma alla fine ha lasciato la riunione al momento del voto (e del confronto) sul nuovo ufficio di presidenza. Alla camera è confermata Simona Bonafé vice presidente vicaria, affiancata da tre vicepresidenti, Paolo Ciani (Demos), Valentina Ghio (vicina all’area di Andrea Orlando) e Toni Ricciardi (vicino all’ex segretario Enrico Letta); segretari d’aula Andrea Casu e Federico Fornaro (ex presidente dei parlamentari di Art.1), segretari con deleghe Sara Ferrari, Roberto Morassut e Silvia Roggiani. Andrea De Maria è il nuovo tesoriere.
Processo al cognome
Ma per una volta, la prima per la nuova segretaria, l’elezione all’unanimità non riesce a nascondere la non partecipazione al voto di Lorenzo Guerini, leader di Base riformista, Marianna Madia, Piero Fassino, Enzo Amendola e Matteo Orfini. A cui va aggiunto un pacchetto di scontenti che si è confuso con gli assenti. La segretaria ha ascoltato gli interventi ma non era presente al voto. Serio il ragionamento di Guerini: critico non per questioni di bilancino fra le correnti, ha spiegato, ma perché non può essere accettato, ha spiegato, «il processo a un cognome», l’aria da «scalpo politico». Severo anche Enzo Amendola secondo cui nel gruppo viene indebolita la rappresentanza del Mezzogiorno.
Resistenza democratica
Il fatto è che Piero De Luca non solo accetta l’incarico, diversamente da quanto circolava nel pomeriggio in Transatlantico, ma annuncia battaglia interna con toni un po’ apocalittici per una vicenda «circoscritta», come la definiscono anche alcuni che non hanno votato: «Continueremo il lavoro per difendere l’esistenza stessa del Pd, il cui tratto distintivo risiede nella capacità di essere una comunità, in grado di aggregare, unire, tenere insieme sensibilità e culture plurali, progressiste, riformiste, liberali, cattolico democratiche», promette. «Lo difenderemo con una resistenza democratica e di impegno civile nelle sedi di partito e nella società». Parole anche troppo impegnative per uno sgarbo, per quanto intenzionale, alla minoranza.
A meno che non si legga in trasparenza di queste parole il malumore di De Luca senior. E a seguire il fischio di inizio di una nuova partita per le minoranze Pd che non hanno gradito l’atteggiamento giudicato troppo conciliante di Stefano Bonaccini, ex candidato sconfitto ed oggi presidente del partito. Primo appuntamento per verificare di che razza di «resistenza» si tratti, la riunione della direzione di lunedì prossimo, all’ordine del giorno l’analisi della sconfitta alle amministrative.
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