Oggi è il giorno di Matteo Salvini, che ha scelto il tribunale di Palermo come palco della sua battaglia politica. I giudici decideranno il primo grado del processo Open Arms, in cui il vicepremier rischia sei anni di carcere con l’accusa di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, per aver impedito per 19 giorni lo sbarco di 147 persone, tra cui minori, dalla nave della ong Open Arms nell’agosto 2019.

Condanna o assoluzione, per lui sarà comunque una vittoria. Intanto, da mesi, si è mosso per far salire la tensione intorno ai giudici: prima con gazebo in piazza, poi con video enfatici e infine – ieri – con un discorso dai toni trumpiani al summit dei Patrioti. Il premier ungherese Viktor Orbán ha sventolato una maglietta nera con il suo viso e la scritta “Wanted”, Salvini ha citato niente meno che il filosofo del Ventennio Ezra Pound: «Se un uomo non è disposto a correre un rischio per le sue idee, o non valgono niente le sue idee o non vale niente lui».

Fin troppo facile vedere il tentativo di emulazione del presidente statunitense Donald Trump, campione nello sfruttare le sue vicende giudiziarie come arma elettorale. «Grazie anche all’elezione di Trump, sarà l’anno della pace», ha detto Salvini, che da tempo sta cercando un avvicinamento con il tycoon. Intanto, in giornata ha incassato il sostegno di Elon Musk: «Assurdo che Salvini sia processato per aver difeso l’Italia». Eppure, se nel caso di Trump l’elezione ha interrotto qualsiasi processo in corso, per Salvini la sentenza – qualsiasi sia – sarà un’assicurazione sulla vita politica.

La condanna

Il vicepremier avrebbe politicamente più da guadagnare da una condanna e forse proprio in questa spera. Poi, dopo il primo grado, ci sarà certamente l’appello. Intanto però un esito processuale negativo contribuirebbe alla sua narrazione di martire per difendere i confini italiani non solo contro i migranti, ma anche contro i giudici politicizzati. «I giudici dovrebbero essere giudici e non fare politica», ha detto ieri al quotidiano olandese De Telegraaf.

Così, la condanna al carcere diventerebbe lo scudo perfetto: impossibile per la Lega scaricarlo nel congresso del 2025, impossibile anche per Meloni ridimensionarlo nel suo ruolo di ministro senza sembrare in soggezione davanti alla magistratura.

La stessa che la premier contesta tutti i giorni proprio per le decisioni in materia migratoria, dal no ai trattenimenti nei centri albanesi alla disapplicazione dei decreti sui paesi sicuri. Paradossalmente dunque – in questo clima infuocato tra poteri dello stato – un ministro condannato per aver portato alle estreme conseguenze il paradigma protezionista di difesa dei confini non potrà che guadagnare spazio politico.

Perché la narrazione regga però la mobilitazione pubblica è un tassello fondamentale e, fino a ora, il richiamo alla piazza è l’unica mossa veramente fallita. Se la premier Giorgia Meloni gli ha espresso «la solidarietà del governo» e il suo omologo Antonio Tajani ha detto che «dovrebbe essere assolto», l’impatto del processo si è limitato ai ranghi politici. L’intento di trasformare il processo Open Arms in un fenomeno pop – come lo furono i processi Ruby a Milano per Silvio Berlusconi – non ha funzionato.

In piazza sono scesi i suoi parlamentari e i militanti nei gazebo, ma senza che una vera folla si sia idealmente stretta intorno al leader. E l’agenda processuale non è stata d’aiuto: in piena votazione della legge di Bilancio, la chiamata alle armi per tutti gli eletti è impossibile e a Palermo ci saranno i pochi che potranno assentarsi.

L’assoluzione

Eppure, dopo tre anni di processo e sentite l’arringa difensiva e la requisitoria della procura, la sensazione è che i margini per una assoluzione – almeno per l’imputazione più grave di sequestro di persona – ci siano. Anche in questo caso, tuttavia, Salvini potrebbe rivendicare la vittoria. Nel processo prima di tutto, a riprova della correttezza del suo operato, ma anche politica. Un’assoluzione, infatti, gli darebbe le armi giuridiche per sostenere che la via disegnata coi decreti Sicurezza del governo giallo-verde fosse corretta e per rilanciarla anche col governo Meloni, in cui la premier ha egemonizzato la questione migratoria dettando in proprio la linea.

Sarebbe poi anche un grande sospiro di sollievo sul piano personale: una condanna detentiva, anche se non definitiva, pesa sulle spalle di chiunque e soprattutto su quelle di un leader ammaccato e in cerca di rilancio. Il vicepremier assolto avrebbe anche gioco facile nel girare la sua narrazione rispetto alla magistratura: per una procura decisa ad affossarlo, giudici indipendenti hanno riconosciuto la bontà del suo operato, a dimostrazione che è solo una parte delle toghe a essere politicizzata e antigovernativa. Qualsiasi sia l’esito, per Salvini il processo Open Arms è un argine contro l’erosione del suo potere, sia dentro la Lega che nel panorama del centrodestra.

Per Meloni, invece, l’esito è tutt’altro che ininfluente. La speranza della premier è quella dell’assoluzione, che sarebbe l’unico modo per evitare l’imbarazzo anche europeo di un ministro condannato che lei non potrebbe non difendere, visto anche quanto lei ha investito sul tema migratorio. L’assoluzione, inoltre, depotenzierebbe l’alleato sempre più recalcitrante e pronto a invadere gli spazi politici reclamati dalla premier: dallo scontro con la magistratura alla vicinanza con Trump.

Certo è che, ben al di là delle sue implicazioni processuali e della volontà dei giudici che la pronunceranno, la sentenza Open Arms sarà una scintilla per la resurrezione di Salvini e una linea di demarcazione per il governo.

© Riproduzione riservata