La manovra, i decreti più importanti e anche la riforma costituzionale saranno esaminati prima dal Senato. Il presidente dell’aula di Montecitorio non riesce a farsi rispettare, riducendo i deputati a un ruolo marginale
In tanti, nei palazzi istituzionali, sono rimasti colpiti dalla metamorfosi di Lorenzo Fontana: appena ha indossato la grisaglia da presidente della Camera ha riposto nel cassetto gli abiti descamisados con quel lessico spesso pesante che in passato lo ha portato a dire: «L’aborto è la prima causa di femminicidio» e le «famiglie arcobaleno non esistono».
Non è dato sapere se sia pentito di queste affermazioni, ma è certo che nel momento in cui è asceso allo scranno più alto di Montecitorio «è diventato un’altra persona», ammette più di qualcuno nel centrodestra, dalla Lega a Forza Italia.
Non è più soltanto il fedelissimo di Matteo Salvini, campione dell’ultradestra veronese in nome della fedeltà all’ideologia Dio, patria e famiglia, pronto a tutto per difendere i propri valori radicali. Ora è una figura, intenzionata a portare avanti il proprio ruolo nel modo più istituzionale possibile. Uno dei momenti più simbolici è arrivato durante il funerale dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, definito «straordinario esempio di senso delle istituzioni», per un personaggio che dalle parti della Lega non è mai stato amato.
Presidente fuori dai radar
Dunque, tutto bene? Mica tanto, almeno nell’ottica del funzionamento delle istituzioni. L’ex idolo dei cattolici più intransigenti sembra vittima della «maledizione» della presidenza della Camera, che ha portato molti suoi predecessori a finire ai margini dopo aver terminato il mandato. Da Luciano Violante a Gianfranco Fini, c’è una lunga galleria di personaggi di spicco caduti politicamente in disgrazia per motivi diversi tra loro. Il cambiamento di Fontana è stato talmente profondo, che è sparito dai radar. Pur di non creare problemi, e non far parlare di sé, ha smesso addirittura di tutelare la Camera che presiede: oggi è di fatto esautorata dai principali passaggi parlamentari. A Montecitorio, infatti, non “passa” più niente. O meglio, arriva solo in seconda lettura con dei testi che non si possono modificare. Il grosso del lavoro viene svolto dall’altra parte, al Senato.
I casi più significativi sono la legge di Bilancio e il decreto Anticipi, il collegato alla manovra, entrambi in esame a Palazzo Madama. Alla Camera, così, resta poco da fare: i deputati, sia di maggioranza che di opposizione, transitano rassegnati in Transatlantico, si girano i pollici, in attesa di schiacciare i bottoni e approvare i provvedimenti, senza potere di intervento. Credevano di rappresentare il potere legislativo, invece si limitano a vidimare la sequenza di voti di fiducia. Di recente quello sul decreto, l’ennesimo, in materia di immigrazione, in precedenza tanti altri. Intanto Fontana assiste impassibile al declassamento della “sua” aula. Si limita a rilasciare qualche dichiarazione di circostanza per qualche commemorazione, partecipa a eventi nella veste di terza carica dello stato.
Monocameralismo di fatto
Un paradosso politico: il recondito sogno di Matteo Renzi è diventato realtà, l’Italia ha scoperto un monocameralismo di fatto, per prassi, un Frankenstein istituzionale. Tutto è accaduto in un modo quantomeno sui generis ed è stata l’aula di Montecitorio a subire la pseudo cancellazione, a favore di una rinnovata vitalità di Palazzo Madama.
«Il combinato disposto della prevalenza della decretazione d’urgenza e della partenza al Senato dei provvedimenti centrali rende la camera del tutto accessoria e il nostro un sistema “monocamerale di fatto”, perché una volta arrivati in seconda lettura hanno tempi d’esame ristretti e non sono mai modificabili», dice apertamente a Domani Simona Bonafè, vice-capogruppo vicaria del Pd alla Camera.
E la predominanza del Senato non è frutto di una congiuntura astrale fortuita, ma la conseguenza di un disegno politico ben preciso, che mette di fronte Fratelli d’Italia e la Lega, nelle persone di Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana, appunto. O anche: Meloni contro Salvini. A Palazzo Chigi hanno indicato la preferenza a Palazzo Madama, senza se e senza ma. Nemmeno a dirlo, a presiedere i lavoro d'aula è La Russa, uno dei padrini politici della presidente del Consiglio.
C’è anche un elemento ulteriore: al Senato il partito di Meloni controlla la presidenza delle commissioni più importanti, affari costituzionali con Alberto Balboni e bilancio con Nicola Calandrini. E last but not least, come spiegano i legislativi più esperti, il regolamento consente alle maggioranze di andare più spedite rispetto alla Camera, beneficiando della riforma del regolamento introdotta dall’allora presidente Grasso.
Il disegno di legge sull’autonomia differenziata è stato l’apripista del trend, assegnato in prima lettura al Senato. In quel caso si pensava fosse una scelta di opportunità. In quel ramo del parlamento siede l’ideatore del provvedimento, il ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli. Il leghista avrebbe potuto seguire l’iter con maggiore precisione. Aveva una sua logica, Calderoli a far garante per la Lega nell’aula gestita da La Russa, uomo di FdI, in una ripartizione equa dell’analisi di un provvedimento delicatissimo per i partiti della maggioranza.
Super La Russa
Ma le ultime settimane hanno dimostrato che l’attenzione agli equilibri è evaporata. Anche al costo di lasciare l’istituzionale Fontana con il cerino in mano, in balia della furia La Russa, che gestisce tutti i dossier. La prima anomalia della stagione tardo autunnale è l’esame nello stesso ramo del parlamento (superfluo aggiungere quale) di due provvedimenti, manovra economica e decreto collegato, che per prassi venivano suddivisi tra Camera e Senato proprio per non creare scontentezza tra deputati e senatori.
Uno va di là, l’altro di qua così da garantire un iter più veloce dei testi, incrociando i loro cammini. Una buona abitudine che non è di moda nell’èra del potere meloniano.
La questione non riguarda solo gli interventi in materia di economia e fisco. Lo schiaffo più rumoroso è quello rifilato sulla riforma costituzionale. Nelle scorse settimane, dopo la firma da parte del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il disegno di legge era atteso alla Camera. Si scaldavano i motori in Transatlantico, finalmente arrivava qualcosa di succoso. Tutte le anticipazioni portavano infatti a Montecitorio. Poi c’è stata la sterzata: il testo è stato incardinato, ancora una volta, al Senato nella commissione presieduta da Balboni. Qualche malumore della maggioranza c’è stato, eccome.
Malumori interni
All’interno di Forza Italia è stato vissuto come una dichiarata mancanza di fiducia verso le commissioni guidate da esponenti del partito di Silvio Berlusconi, in particolare quella di affari costituzionali presieduta da Nazario Pagano, che «finora ha sempre avuto un approccio equilibrato e sicuramente mai ostile alla maggioranza», fanno notare fonti parlamentari. Un dito nell’occhio, gratuito, agli alleati. E ancora di più al presidente della Camera, che ha subito – sempre con piglio impassibile – l’ennesimo affronto. A chiudere il cerchio dell’uragano La Russa che fa incetta dei provvedimenti-clou, c’è il decreto Piano Mattei. Da qualche giorno ha avviato l’iter al Senato, ovviamente, nonostante il contenuto non sia poi così dirompente, così come il decreto Energia bis, da poco licenziato da Palazzo Chigi.
Questi non sono certo i primi casi che testimoniano una certa debolezza del presidente della Camera. Sulla decretazione d’urgenza e le questioni di fiducia, Fontana non è riuscito a imporsi una volta che fosse una. In più occasioni ha incontrato la premier Meloni, ottenendo in cambio il solenne impegno – seppur solo verbale – di una limitazione dei decreti e del ricorso alla fiducia. Il risultato è quello di un governo che ha posto la questione di fiducia 27 volte a Montecitorio dall’inizio della legislatura, almeno una decina in più rispetto al Senato nonostante i numeri più esigui della maggioranza a Palazzo Madama.
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