Qual era l’origine dell’epidemia di tossicodipendeza raccontata dalla docuserie Netflix sulla comunità di San Patrigano? La risposta è in Sicilia
- Tutti volevano salire sulla grande giostra della droga. Era la pazzia dei soldi. In quegli anni a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta Palermo non era ricca, era sfrenatamente ricca.
- Gli esperti della Drug Enforcement Administration avevano valutato che la Cosa Nostra copriva un terzo del mercato nordamericano.
- La materia prima la importavano prima dalla Turchia e poi dal “triangolo d'oro”, zona montuosa al confine fra la Thailandia, il Laos e il Myanmar. Il trasporto lo garantivano trafficanti orientali, egiziani, turchi e nel passaggio finale naturalmente i "siciliani”.
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FILE - This Tuesday, May 19, 2015 file photo shows a firearm and 154 pounds of heroin worth at least $50 million displayed during a Drug Enforcement Administration news conference in New York. According to government data released Thursday, Dec. 8, 2016, drug overdose deaths in the U.S. surpassed 50,000 in 2015, the highest mark in at least 15 years. (AP Photo/Mark Lennihan)
Dietro l'ultima porta c'erano gli alambicchi, le pentole, i palloni di vetro, i termometri e le provette, gli imbuti, i bidoni, i fornelli, i setacci e tre maschere antigas. Quando noi giornalisti riuscimmo ad entrare nella stanza scavalcando una finestra sul retro, i carabinieri si erano già portati via quarantacinque chili di eroina purissima e sessantaquattro chili di morfina base.
Il laboratorio per lavorare la “pasta”, così la chiamavano i mafiosi, era in una casa bianca a due piani sulla via Messina Marine, lunghissima strada che corre parallela alla via Messina Montagne e che ha in mezzo Corso dei Mille, viale dei Picciotti, Ponte dell'Ammiraglio, luoghi che sembrano portare incontro alla storia ma che in quella Palermo mi avevano guidato sino alla prima raffineria di eroina scoperta in Sicilia.
L'anno era il 1982, il mese febbraio. Poi ne trovarono molte altre. In una stalla di Baida, in un deposito di carburanti dietro al bar Baby Luna, in un garage di Villagrazia, in un appartamento alla Guadagna, in una masseria nelle campagne di Alcamo.
La pazzia dei soldi
Tutti volevano salire sulla grande giostra della droga. Era la pazzia dei soldi. In quegli anni a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta Palermo non era ricca, era sfrenatamente ricca. Gli esperti della Drug Enforcement Administration avevano valutato che la Cosa Nostra copriva un terzo del mercato nordamericano, qualcosa come quattro tonnellate l'anno piazzate a Buffalo, a New York, a Montreal, a Filadelfia. Per l'Fbi erano anche di più, sei tonnellate l'anno.
La materia prima la importavano prima dalla Turchia e poi dal “triangolo d'oro”, zona montuosa al confine fra la Thailandia, il Laos e il Myanmar. Il trasporto lo garantivano trafficanti orientali, egiziani, turchi e nel passaggio finale naturalmente i "siciliani”.
La manodopera specializzata, i chimici, veniva da fuori. Erano quelli della French Connection, che già dal 1960 contrabbandavano eroina, facendola transitare dall'Argentina o dal Paraguay, verso gli Stati Uniti.
A Palermo di quei chimici che trattavano la polverina magica ne sbarcarono due, Andrée Bousquet e Pierre Doré, corsi al servizio del "clan dei Marsigliesi”.
Li arrestarono nell'agosto del 1980 al “Riva Smeralda’, un albergo di Villagrazia di Carini. Il proprietario dell'hotel, Carmelo Iannì, un galantuomo che aveva dato una mano ai poliziotti “assumendo” un commissario come cameriere, fu ucciso meno di una settimana dopo.
L’erorre di ù dutturi
E' così che in quella casa bianca di via Messina Marine, con i due corsi rinchiusi all'Ucciardone, si presentò un giorno Nino Vernengo della “famiglia” di Piazza Scaffa e disse ai suoi amici: «E che ci vuole? Bastano alcune bacinelle di acciaio, un po' di fuoco, c'è una grande puzza e serve anche tanta aria..».
Da quel momento Nino Vernengo diventò per tutti "ù dutturi”, il dottore. Ma fece tanti guai. Aveva visto all'opera Bousquet e Doré che aggiungevano tropeina e benzatropina per compensare i chili che la "pasta" perdeva durante l'ebolizione, e ne aggiunse troppa dell'una e dell'altra. Poi mandò il suo veleno in America.
A New York i ragazzi morirono come mosche, un centinaio in una decina di giorni. Dall'altra parte dell'Atlantico s'infuriarono, il "dottore” fu costretto a restituire i soldi della spedizione assassina.
Al posto dell'ingordo Vernengo arrivò Francesco Marino Mannoia che, in poco meno di due anni, ha raffinato da solo seicento chili di morfina base. Per ogni chilo guadagnava 5 milioni di lire.
Stava chiuso lì dentro giorno e notte, ansimava, gli mancava l'aria. Aveva la faccia bianca come un lenzuolo. I mafiosi misero anche a lui l'"inciuria”, il soprannome: "Mozzarella”, per il pallore del viso.
Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, i suo capi, vendevano l'eroina che raffinava Mannoia ai Gambino d'America a 50 mila dollari al chilo e i Gambino d'America la rivendevano ai loro grossisti sul territorio a 130 mila dollari al chilo. Era il delirio. Droga, sempre più droga. Non si parlava d'altro a Palermo.
E, a Palermo, intanto un po' di quell'eroina non partiva più per le destinazioni lontane. Restava in Sicilia, veniva dirottata a Roma, a Milano, a Torino, a Genova.
La strage italiana
Non si sa cosa esattamente sia accaduto né esattamente quando, ma l'eroina di Palermo ha cominciato a uccidere i ragazzi italiani. O li ha divorarati lentamente. Alcuni non ce l'hanno fatta nemmeno dopo, altri si sono rifugiati in comunità come San Patrignano, quella di don Picchi, il Gruppo Abele.
Un'ipotesi su ciò che può essere avvenuto l'ha ricercata Piero Melati nel suo ultimo libro - La notte della Civetta, un ostinato tentativo di cambiare il finale a favore della mafia nel capolavoro di Sciascia - che racconta come a Palermo all'improvviso sia sparito il "fumo” e sono cominciate le "ammazzatine” dei piccoli spacciatori, l'eroina che prima si smerciava solo a Villa Sperlinga, nota come "villa siringa”, aveva invaso ormai tutti i quartieri.
Forse perché le agenzie antidroga americane avevano iniziato a sequestrare i carichi provenienti dall'isola e c'era bisogno di trovare altri mercati, forse perché già comandava Totò Riina che voleva realizzare il massimo profitto anche in patria. Ma, come scrive Melati, non abbiamo saputo saldare «Palermo fabbrica di eroina del pianeta» con «i mai morti», quelle migliaia di adolescenti cancellati dalla memoria, le altre vittime della mafia di Palermo. Per loro non c'è neanche una lapide.
Nella sua seconda vita il pentito Gaspare Mutolo ha ricordato la prima nell'aula bunker dell'Ucciardone in un'udienza del maxi processo: «Cominciai con un traffico di modica quantità..». Il presidente della Corte di Assise Alfonso Giordano gli chiese: «Mutolo, cosa intende lei per modica quantità?». E Mutolo: «Quattro chili e mezzo». La fortuna criminale di "Gasparino” proveniva dall'amicizia con Koh Bak Kin, un cinese di Singapore che dal Sud Est asiatico inviava a Partanna Mondello (la borgata palermitana dove Mutolo era nato e aveva il suo quartier generale) tutta la droga che voleva.
Investimenti e rendimenti transoceanici
Ogni rappresentante di famiglia o di mandamento investiva la sua quota, poi ci pensavano quelli di Passo di Rigano e dell'Uditore, i Gambino e gli Inzerillo, gli Spatola e i Di Maggio. Il loro vero capitale erano i cugini “americani” che dal 1964 si erano sistemati nel New Jersey, a Cherry Hill. Una ragnatela di parentele che portavano tutte a Charles Gambino, il capo dei capi delle “cinque grandi famiglie” di New York. Aristocrazia mafiosa.
Come i "castellammaresi” che erano emigrati nel 1925. Come Tommaso Buscetta, "il boss dei due mondi”. Come il vecchio Tano Badalamenti che era di Cinisi, e a Cinisi c'era lo scalo Punta Raisi che don Tano controllava, e da Punta Raisi decollava due volte la settimana un Boeing diretto a New York. Un aereo che la voce popolare aveva ribattezzato “Il Padrino”.
Nessuno doveva restare fuori dal "bisinisso”, al contrario bisognava far entrare tutti perché conveniva a tutti. E pur sapendo che non aveva - come dicono loro - le "qualità” di uomo d'onore (troppo esuberante, troppo chiacchierone) affiliarono a Cosa Nostra pure Masino Spadaro, il contrabbandiere del quartiere arabo della Kalsa che per il patrimonio che aveva accumulato si presentava a tutti come “il Gianni Agnelli di Palermo”. Serviva anche lui. Una volta "dentro” potevano appropriarsi senza spargimento di sangue e di denaro delle sue navi, delle sue rotte, dei suoi contatti con i “napoletani” come i Bardellino e i Nuvoletta. Più mafia, più droga, più soldi.
Ma se in Italia il giudice Giovanni Falcone stava istruendo quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che era il maxi processo, negli Stati Uniti era già caccia grossa alla "Pizza Connection”.
I Rothschild della mafia
Il viceprocuratore federale Louis Freeh - che poi Clinton nominerà capo del Federal Bureau of Investigation - e il procuratore Rudolph Giuliani - che poi sarà sindaco di New York - grazie alle informazioni dei magistrati del pool antimafia di Palermo e alle "cantate” di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno che nel frattempo avevano salto il fosso, individuarono le pizzerie dei “paisà” come il terminale dei traffici che partivano dalla Sicilia. Una grande retata negli States e un processo ai riciclatori a Lugano.
Nella rete restarono imbrigliati quelli che erano conosciuti come i "Rothschild della mafia”, Alfonso Caruana e Pasquale Cuntrera. Nel 1957 avevano lasciato Siculiana, un piccolo paese della provincia agrigentina. Lo “zio” Alfonso nel 1968 fu registrato in entrata dall'ufficio Emigrazione di Montreal come elettricista, nel 1978 fu fermato all'aeroporto di Zurigo con una valigia stracolma di franchi svizzeri, nel 1988 il suo patrimonio era stimato in 100 milioni di dollari. Tutta droga.
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