La famiglia Ballarin, come molte altre provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia durante l’esodo che seguì la fine della Seconda guerra mondiale, ha dovuto optare se rimanere italiana oppure acquisire la cittadinanza jugoslava. Renato Ballarin lasciò l’isola di Lussino. Sin dal 1947 alcuni profughi, tra cui Ballarin, giunsero in quello che oggi è il quartiere Giuliano Dalmata.
In questo mese sono spesso invitata a conferenze e dibattiti sul Giorno del ricordo, che ricorre il 10 febbraio per ricordare la tragedia delle foibe e dell’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia nel secondo dopoguerra, e sempre più spesso, più che una ricostruzione storica, mi si chiede una testimonianza di carattere personale, legata alle vicende della mia famiglia. Devo così metter mano ai ricordi, cosa che mi riempie di emozioni intense. Faccio ancora fatica a radunare e sistemare le fotografie e i documenti di un passato difficile da raccontare.
Decido di riprendere il grande baule della ditta Acomin, incaricata dell’imballaggio e trasporto delle poche cose che gli esuli riuscirono a portare nel loro esodo forzato e che si trova nella cantina della mia casa natia, al villaggio Giuliano Dalmata di Roma, il quartiere a sud della capitale dove approdarono quegli italiani che provenienti dai territori italiani ceduti all’ex Jugoslavia arrivarono in città.
Forse c’è ancora qualche ricordo della famiglia di mio padre Renato Ballarin e dei suoi fratelli, Antonio e Maria. Venivano da Lussingrande, nell’isola di Lussino, mirabilmente descritta dallo scrittore Giani Stuparich nel romanzo breve L’Isola, situata in quello che era l’estremo confine orientale d’Italia, oggi in Croazia.
Un viaggio per mare
Un freddo giorno del novembre 1949 lasciarono la loro casa, bella e decorosa, per giungere nella madrepatria, dopo aver optato per rimanere italiani e di conseguenza lasciare la terra natia come prevedeva il trattato di pace. Un viaggio per mare e per terra lungo, silenzioso, angosciante, insieme a tanti paesani.
Per una persona come lo zio paterno, Antonio, un internato militare italiano, sopravvissuto alla prigionia in Germania presso lo Stalag B, al confine tra Germania e Polonia, e chissà come tornato a casa ridotto a uno scheletro, la decisione di lasciar tutto deve essere stata straziante.
Depositate le impronte digitali e sottoposti a disinfezione, vennero inviati al Silos di Trieste, poi al campo profughi di Udine. Dopo varie peregrinazioni i fratelli Ballarin arrivarono a Roma; Antonio e Maria morirono poco dopo. Mio padre Renato sposò Lidia, esule dallo stesso paese, che solo nel novembre del 1954 riuscì a lasciare la Jugoslavia. Come in pochi sanno, agli italiani della Venezia Giulia, di Fiume e di Zara, venne negato il richiesto referendum, ovvero di potersi esprimere sul proprio destino.
L’opzione
Fu loro concesso solo di “optare” se rimanere in Jugoslavia o andare in Italia. Le opzioni furono aperte nel 1948 e nel 1951, e in entrambi i casi, benché avessero inoltrato ricorso, a mia madre e al mio nonno materno venne negata la possibilità di lasciare la Jugoslavia. Lidia fu spiata, interrogata e vessata dall’Ozna, la polizia segreta jugoslava, che le negò per lunghi anni il documento d’identità.
Visse così nel terrore di poter sparire senza che nessuno potesse più rintracciarla, situazione, questa, frequentissima in quegli anni in tutta la Jugoslavia. In modo rocambolesco riuscì a lasciare l’amato paese, e, una volta in Italia si presentò alla polizia come richiedente asilo politico.
Il matrimonio a Roma costituì un ancoraggio per i due i giovani, naufraghi tra le onde della storia. Il piccolo appartamento del quartiere Giuliano e Dalmata dove sono nata era considerato una dimora di lusso per gli altri esuli, che abitavano, invece, negli alloggi dell’ex villaggio operaio, costruito per le maestranze che lavoravano nel grande cantiere dell’Esposizione universale romana, l’Eur, e di cui non c’è più traccia, se non nei filmati dell’Istituto Luce.
Il villaggio di Giuliano Dalmata
Sin dal 1947 alcuni profughi, chissà come, giunsero in quello che oggi è il quartiere di Giuliano e Dalmata, luogo fatiscente e abbandonato in aperta campagna, a otto chilometri dalla basilica di San Paolo, senza alcun servizio essenziale. Era gente stremata da lunghi mesi di abbandono e indigenza totale vissuta nei sotterranei della stazione Termini.
Lentamente il sito si popolò di persone provenienti da tutta l’Istria, le isole del Quarnaro e Zara, creando così un insediamento unico nel suo genere nella capitale, con le sue scuole, negozi e officine. Ci si conosceva tutti e si parlava in dialetto veneto a casa, per strada, nei negozi, in chiesa.
Noi piccoli non percepivamo le storie dolorose che gravavano sulle spalle degli adulti e le strade del quartiere, titolate a personaggi importanti istriani e dalmati, erano il teatro dei nostri giochi estivi, la piazza Giuliani e Dalmati, con il viale Oscar Sinigaglia e il giardino della chiesa, il nostro quartier generale. Mentre vago con il pensiero, spuntano dal baule le fotografie di antenati sconosciuti e quella di una lontana vacanza a Lussino.
Le vacanze
Mia madre Lidia, infatti, noncurante dei suoi difficili trascorsi nella terra natale, di cui aveva un’acutissima nostalgia, sin dal 1960 tornò nell’isola, portando me e mio fratello piccolissimi. Così, mentre i bambini romani andavano al mare a Ostia e Torvaianica, noi ogni anno, trascorrevamo le vacanze estive oltre la cortina di ferro.
Lì trovavo gli zii, i cuginetti, che non avevo a Roma. Ma la gioia per quegli incontri durò poco: due fratelli di mia madre emigrarono negli Stati Uniti, Carmela e Giovanni stabilendosi a New York, dove i loro figli ancora vivono. Quello maggiore Giuseppe rimase nell’isola e noi a Roma.
Nonostante i rapporti epistolari e qualche momento insieme a Lussingrande in estate, la famiglia si è frammentata e inesorabilmente dispersa. Probabilmente nessuno se ne sarebbe andato se le condizioni di vita imposte dai vincitori non fossero state così devastanti.
Il quartiere oggi
Chiudo nel pesante baule i ricordi di una storia drammatica e assi difficile da raccontare, da far comprendere, e torno a casa passando per la piazza del quartiere, nucleo storico, ufficialmente riconosciuto, dell’odierno popoloso IX municipio. Circondato da bei monumenti, quali il Leone marciano che sormonta l’ingresso della chiesa parrocchiale e un mosaico di Amedeo Colella, esule da Pola, affiancato dai versi della Divina commedia, sul selciato appare il disegno della penisola istriana, delle isole e di Zara, composto da pietre recanti i nomi di molti degli esuli giunti a Roma e dei loro paesi di provenienza.
È stata la felice idea di Oliviero Zoia, uno dei ragazzi del villaggio ora anziano come me, che desidera non si perda il ricordo di terre e di persone molto amate. Gli studenti e le associazioni culturali, che sempre più numerose vengono a visitare il quartiere, leggeranno i nomi anche dei miei genitori, mentre i ragazzini continueranno a giocare spensierati nella piazza.
Maria Ballarin, insegnante e storica, è nata a Roma da genitori esuli dall’isola di Lussino ed è cresciuta nel villaggio Giuliano Dalmata della capitale, si è laureata in filosofia e in teologia. Ha pubblicato il saggio Il trattato di pace 10 febbraio 1947 nei programmi e nei testi scolastici di storia, edito da Leone editore.
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