Silvio Berlusconi, il più improbabile pretendente al trono del Quirinale a memoria democratica, si è preso il proscenio del weekend politico.

Ma a una settimana dall’inizio delle votazioni che eleggeranno il successore di Sergio Mattarella continuano a muoversi dietro le quinte i macchinisti dei partiti, sherpa veri e presunti, leader e peones.

Tutti indaffarati a tentare di ricomporre il cubo di Rubik dell’elezione presidenziale, che si è trasformata da importante, ma normale, passaggio istituzionale a intricato puzzle politico. Un rompicapo che – se non risolto bene e velocemente – rischia di portare il paese su tangenti perigliose in un momento delicato della storia della Repubblica.

Nelle analisi pubblicate nelle ultime settimane Domani ha raccontato i disegni del clan che punta sul trasloco immediato del premier Mario Draghi al Colle, e le astuzie con cui altri leader (da Giuseppe Conte a Massimo D’Alema, da Dario Franceschini ai teorici della preminenza dei partiti sulla tecnocrazia) stanno saggiando soluzioni alternative.

Come un Mattarella bis o l’elezione di un esponente solidamente ancorato al sistema dei partiti che riesca a raggiungere il quorum dal quarto scrutinio in poi, quando il numero di voti necessari all’incoronazione scenderà dai due terzi alla maggioranza assoluta.

Gemelli diversi

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Tra gli strateghi più laboriosi ci sono anche i leader che più di tutti hanno caratterizzato l’andamento di questa bizzarra legislatura. Cioè i “due Mattei”: il segretario della Lega Salvini e il capo di Italia viva Renzi.

I “nemiciamici”, i gemelli diversi che hanno calcato per la prima volta gli studi televisivi partecipando ai quiz a premi di Canale 5, hanno inciso sulla vita politica degli ultimi anni come nessun altro capo partito è riuscito a influire.

Grazie ai risultati usciti dalle urne il 4 marzo 2018 e a un avventurismo ontologico che li caratterizza, Renzi e Salvini hanno creato esecutivi alla vigilia inconcepibili, e li hanno poi fatti fallire in un amen; ne hanno ricostruiti altri minacciando nuovi affondamenti, ordinando nel contempo secessioni o litigando con alleati storici.

Due situazionisti che hanno sempre il medesimo obiettivo finale: la ricerca della ribalta e del potere personale.

Dati per defunti cento volte, risorti altrettante, i due Mattei – seppur al comando di eserciti che ora hanno un peso specifico dissimile – giocano da generali anche la partita del Colle. Con attenzione quasi maniacale: sanno entrambi che il finale sarà decisivo per la forza della loro leadership e, nel caso di Renzi, finanche per la sua sopravvivenza politica a breve termine.

A Domani risulta che i rapporti – prima mediati da Denis Verdini, oggi diretti – si siano intensificati negli ultimi giorni e che, visto che entrambi considerano improbabile l’elezione di un pregiudicato come Berlusconi all’alto incarico, i due stiano immaginando insieme piani alternativi.

Il primo, azzardato, ipotizza l’incoronazione di un esponente del campo dei conservatori appoggiato anche da Renzi (come Letizia Moratti, Franco Frattini, ma l’ultimo nome che piace alla coppia è quello dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti). In caso di fallimento, i due non escludono una convergenza finale su Draghi.

L’asse dei due Mattei allarma istituzioni e fazioni di destra e sinistra. Perché tutti sanno che entrambi, al di là delle dichiarazioni e delle promesse di fedeltà, al gioco di squadra preferiscono azioni individuali che possano premiare in primis le loro ambizioni personali.

Le chiavi di Salvini

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Partiamo da Salvini. Nell’epidemia di king maker che caratterizza queste presidenziali, studiando le biografie dei 1.009 grandi elettori un fatto è acclarato: Salvini è colui che controlla, come numero uno della Lega e come boss di riferimento di un pezzo del centrodestra che va oltre il Carroccio, il maggior numero di voti. Berlusconi e Draghi, gli unici candidati ufficialmente in campo, lo sanno bene e da tempo hanno provato a testare le reali intenzioni del sovranista che più di tutti ha le chiavi per “indirizzare” la partita del Colle.

«Berlusconi è il candidato del centrodestra, se scioglie la riserva lo voteremo compatti», ha detto Salvini venerdì scorso. Aveva annunciato il giorno prima la mossa ai pochi fedelissimi con cui si sta consultando: Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari, cioè i capigruppo leghisti alla Camera e al Senato, il ministro Giancarlo Giorgetti e i governatori Massimiliano Fedriga e Luca Zaia. Attilio Fontana, presidente della regione Lombardia, stavolta non è stato avvertito.

La dichiarazione è stata concordata anche nelle virgole con Giorgia Meloni, ed è cosa nota. Ma in pochi sanno che anche la consigliera di Berlusconi Licia Ronzulli ha contribuito alla stesura: da sempre grande amica di Salvini («lei è il cavallo di Troia di Matteo dentro Forza Italia», dicono a Domani dall’entourage di Renato Brunetta, da sempre ostile al capo del Carroccio) insieme a Marina Berlusconi e Fedele Confalonieri è proprio la senatrice azzurra a mediare tempi e modi della campagna dell’ex Cavaliere.

Con un occhio fisso allo scenario che Ronzulli ritiene inevitabile nel futuro prossimo venturo: la diluizione di ciò che resterà di Forza Italia dentro la Lega, in cui la senatrice di FI intende giocare – se Salvini glielo consentirà – un ruolo di primo piano.

Al di là dei proclami, il sovranista resta parecchio dubbioso sul buon esito della guerra lampo di Berlusconi. Ma non poteva eludere il pressing del tycoon. Come hanno scritto gli analisti più attenti, teme eventuali ripercussioni mediatiche, visto che i talk e l’infotainment di Mediaset da quasi un lustro appoggia le politiche salviniane, anche le più becere.

Ma anche perché Salvini sa che il suo interesse prioritario è quello di tenere compatto il fronte del centrodestra più a lungo possibile. «Finora ci è riuscito bene, e vi assicuro che non era facile. Ora Matteo deve smarcarsi molto lentamente dal destino di Berlusconi, che rischia di essere impallinato in aula da decine di franchi tiratori» spiega una fonte leghista di primissimo piano. «Se come crediamo la candidatura naufragherà senza che nessuno ci rimetta la faccia, Salvini proverà a far convergere il centrodestra unito su un nome condiviso, che piaccia pure a Renzi e a un pezzo del gruppo Misto».

Da Moratti a Tremonti

mauro scrobogna

Salvini non esclude l’opzione Draghi, nonostante sia evidente che tra i due il feeling e la fiducia non siano mai scattati. Ma prima di capitolare sul tecnocrate sancendo l’impotenza di un’intera classe dirigente davanti ai “migliori”, sta lavorando per piazzare al Quirinale una figura che faccia parte del sistema dei partiti, alla disperata ricerca di un riscatto.

Le opzioni in campo in realtà non sono molte. Un pezzo del Pd nelle ultime ore ha proposto al leghista di scegliere lui il candidato da un mazzo di nomi del campo progressista («Dario Franceschini sarebbe il più adatto», dicono i fedelissimi di Goffredo Bettini).

In cambio il nuovo presidente della Repubblica non metterebbe veti a Salvini nel caso di una sua vittoria alle prossime elezioni politiche. La proposta indecente sembra utopistica: come potrebbe intestarsi il capo della destra italiana l’ennesimo presidente di area democratica?

Letizia Moratti non dispiace, ma Salvini non ha abbracciato davvero una sua possibile candidatura: la stima è assoluta, ma l’ex ministro dell’Interno teme che la vicepresidente della regione Lombardia non abbia molti fan in parlamento. A parte i senatori e i deputati che fanno riferimento a D’Alema e Conte, che negli ultimi giorni hanno tessuto le lodi della manager, esclusivamente in chiave anti Draghi.

Il nome di Giuliano Amato, che i bookmaker danno in terza posizione dopo il premier e un difficile reincarico a Mattarella, non convince Salvini. Dal suo entourage ripetono una battuta che circolava già nel 2013 e che al tempo è stata attribuita a Pier Luigi Bersani.

«Disse a Berlusconi, che ipotizzava l’ascesa al Colle dell’ex socialista, che Giuliano è teoricamente l’uomo giusto. Però mezzo parlamento lo detesta per essere stato il braccio destro di Bettino Craxi, l’altra metà perché lo considera il suo traditore. Lo pensa anche Matteo».

Salvini, negli ultimi giorni, ha però chiacchierato con i suoi colonnelli (e con Renzi) di una congettura nuova: la carta Giulio Tremonti, di cui ha scritto Tommaso Ciriaco su Repubblica. Ex potente ministro dell’Economia dei quattro governi Berlusconi, illusionista della finanza creativa, il professore è un profilo che il capo della Lega apprezza in quanto europeista molto critico con venature protezionistiche. Salvini crede che il suo nome potrebbe far breccia anche in pezzi del gruppo Misto e dei Cinque stelle tendenza Conte, fortemente ostili alla promozione di Draghi.

Tremonti è una sorta di nemesi dell’attuale premier: divisi da una freddezza antica, per un lustro Draghi è stato osteggiato e criticato in ogni modo dall’economista di Sondrio, che non lo avrebbe voluto come governatore della Banca d’Italia a fine 2005, dopo le dismissioni di Antonio Fazio.

Non solo. Il commercialista ha sempre mostrato avversione per i governi guidati da «ottimati» e non eletti dal popolo.

«Diventasse Tremonti presidente della Repubblica, la premiership di Draghi salterebbe due minuti dopo: ecco perché auspichiamo che il suo nome sia solo una boutade», dicono a Domani autorevoli fonti di palazzo Chigi.

La linea d’ombra

Intanto è rilevante sottolineare come Salvini abbia drasticamente modificato il suo modus operandi.

A differenza delle mattane “alla Papeete” (la discoteca romagnola da cui ha annunciato nell’agosto del 2019 la caduta del Conte I), o delle performance estremiste che non gli hanno impedito di perdere elezioni regionali e comunali, nella vicenda quirinalizia si muove con un’accortezza che pochi gli accreditavano.

Quando Berlusconi ha annunciato che con l’eventuale elezione di Draghi Forza Italia sarebbe uscita dal governo, lui (insieme a Renzi) ha rilanciato con l’adagio di un esecutivo appoggiato dalla medesima maggioranza in cui entrino tutti i leader dei partiti, in modo che nessuno possa guadagnare vantaggio su altri nell’anno pre elettorale.

Un’idea che la coppia ha mutuato da Goffredo Bettini, cervello del Pd che l’aveva lanciata (senza successo) a gennaio 2021 per tentare di salvare la poltrona dell’amico Giuseppe Conte, allora presidente del Consiglio.

Non solo: quando Franceschini, Andrea Orlando e i forzisti di tendenza draghiana hanno accusato Salvini di volersi sfilare dalla responsabilità di governo subito dopo il voto sul Colle in modo da recuperare consensi facendo opposizione dura e pura alla Meloni, il segretario ha detto che la Lega «non ha nessuna exit strategy dal governo», e che ci sarà a prescindere da chi sarà il premier.

Zero asserzioni ultimative, poche polemiche con gli avversari, la cautela è dovuta alla circostanza che, dopo tutti gli errori politici fatti dal Papeete in poi, il leader sembra aver capito che la vicenda del Quirinale può trasformarsi nella sua “linea d’ombra”, che Joseph Conrad considerava passaggio necessario «che ci avverte di dover lasciare alle spalle le ragioni della prima gioventù».

Osteggiato dalle cancellerie di Francia e Germania e dall’Unione europea che ha in mano la cassaforte del Recovery fund, visto con sospetto dall’amministrazione americana di Joe Biden per i rapporti con Mosca e gli scandali che hanno coinvolto i suoi fedelissimi beccati a trafficare gas con i russi, Salvini potrebbe usare la golden share del Quirinale per modificare finalmente una narrazione che lo rende impresentabile agli occhi dell’establishment.

Gli stessi poteri che indussero Mattarella a negargli, nel 2018, finanche un incarico esplorativo, nonostante fosse lui il capo della coalizione di maggioranza relativa uscita dalle urne. Un fatto che Salvini non ha mai perdonato al presidente uscente, tanto da non essere favorevole a un bis del democristiano, se non davanti al caos di nuova emergenza democratica.

Tutti su Draghi?

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È questo il motivo principale per cui Giorgetti suggerisce a Salvini – dovesse cadere l’ipotesi Berlusconi – di far confluire i voti della Lega su Draghi. Il ministro dello Sviluppo economico considera infatti la mossa come un investimento di medio lungo periodo per il partito e per il capo politico, con il quale i rapporti sono migliorati dopo le violente frizioni autunnali.

Un’operazione che chiuderebbe il cerchio, e darebbe anche senso compiuto alla decisione della Lega aver appoggiato il governo del tecnocrate, che tanti consensi ha tolto al partito nei sondaggi. Favorendo l’ascesa di Draghi Salvini forse non entrerebbe nei salotti buoni, ma avrebbe dal banchiere la garanzia di poter governare – vincesse le elezioni a fine 2022 o inizio 2023 – con la benedizione di un uomo che potrebbe garantirlo in Europa.

L’ex banchiere centrale al Quirinale è l’esito finale su cui alcuni osservatori sembrano oggi scommettere di più: se è vero che i leader che non vogliono Draghi inquilino del Colle sono molti e influenti, nessuno ha finora presentato un disegno credibile alternativo: dieci persone con dieci soluzioni diverse e dieci proposte che si contrastano tra di loro non sembrano una strategia vincente.

Salvini resta ancora in bilico tra il richiamo della foresta che gli impedirebbe di issare al Colle un iper-europeista e socialista liberale come Draghi, e la scelta di modificare davvero la constituency del partito, abbandonando le pulsioni populiste alla Orbán e avvicinandolo così a una cultura conservatrice ma più moderata stile Cdu tedesca.

Di tempo ormai ne rimane poco, e Salvini dovrà sciogliere le riserve.

Sopravvivenza

L’altro Matteo, intanto, non sta alla finestra. Maestro indiscusso delle trame di palazzo – in sette anni è diventato premier pugnalando Enrico Letta, ha eletto presidente Mattarella praticamente da solo, ha bloccato la nascita di un governo Pd-M5s, stoppato la marcia di Salvini verso le urne intestandosi il Conte II, che poi ha fatto saltare agevolando l’arrivo di Draghi – Renzi prova per l’ennesima volta a ottenere massimi vantaggi dallo snodo politico che verrà.

Con un partito, Italia viva, inchiodato al 2 per cento e una fama da lobbista che gli ha alienato quasi del tutto le simpatie degli italiani, il senatore vuole sfruttare al meglio i 45 grandi elettori che (forse) gestisce: pochini, ma visto l’equilibrio tra i poli l’ex sindaco di Firenze è sicuro che il suo pacchetto di mischia possa essere spendibile per assemblare un’alleanza che incarichi un presidente che sia in parte anche “suo”.

Ma a questo giro Renzi sa anche che la vera posta in gioco è la sua stessa sopravvivenza politica: non riuscisse a fare adesso accordi con altre forze e dovesse passare poi una legge proporzionale con uno sbarramento alto, alla prossima legislatura il numero dei renziani in parlamento potrebbe contarsi sulle dita di una sola mano. «Renzi deve essere determinante per la battaglia del Quirinale, per chiedere poi il tornaconto politico al fronte a cui consegnerà i suoi voti», dice chi da Italia viva non vede di buon occhio un appiattimento su un eventuale candidato della destra.

Renzi declina strade e alternative con Maria Elena Boschi, Davide Faraone ed Ettore Rosato, consiglieri preferiti insieme ai toscani Verdini, Alberto Bianchi e Marco Carrai. Stavolta non può imporre nomi, ma la sua strategia ha pochi punti fermi.

In primis come Salvini vuole scongiurare un bis di Mattarella (che non sciolse le Camere quando lui perse il referendum del 2016, come lui invece sperava). In secondo luogo tenterà di spaccare la maggioranza. «Se i partiti che appoggiano Draghi votano compatti per la stessa persona, Renzi non conterebbe più nulla e dopo non potrebbe chiedere niente a nessuno. Riuscisse a essere determinante per eleggere un candidato di centrodestra, lo scenario futuro per lui resta difficile, ma diventerebbe più propizio», dicono dal Nazareno, sede del Partito democratico.

L’opzione di convergere su Draghi, seppure i rapporti personali tra i due siano rarefatti, per l’ex senatore è del tutto possibile. L’ex Goldman Sachs ha snobbato Italia viva quando un anno fa stilò con Mattarella la lista dei ministri (Renzi vanta solo un ministero di scarso peso, quello delle Pari opportunità), ma il senatore crede che l’attuale premier possa essere designato da un fronte che escluda i Cinque stelle e Conte.

In quel caso, la frantumazione del patto giallorosso non sarebbe più una chimera: Renzi tenta di picconare l’accordo da due anni, in modo da poter aprire il forno a sinistra che oggi gli è precluso per via della rivalità con l’avvocato di Volturara Appula.

3 - fine

 

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