Se il presidente della Repubblica si scegliesse sulla base del curriculum, Giuliano Amato sarebbe sicuramente tra i favoriti.
Due volte presidente del Consiglio, ministro del Tesoro, presidente dell’Antitrust, giudice della Corte costituzionale di cui sta per diventare presidente, e poi giurista di fama, nazionale ed europea...
Per quanto da anni distaccato dalla lotta politica, il suo sarebbe un nome in quota centrosinistra ma considerato accettabile anche da un pezzo del centrodestra (Forza Italia) e perfino dal Movimento Cinque stelle (per ragioni imperscrutabili, visto che Amato è simbolo della Prima repubblica dei partiti, del Partiti socialista di Tangentopoli, delle maxi-pensioni, delle caste del parastato che i grillini volevano contestare...).
Nei mesi scorsi la candidatura di Amato era nata come un’alternativa al Mattarella bis: a 83 anni, Amato si è inizialmente accreditato come un presidente di transizione, disposto a rimanere un paio d’anni mentre il sistema politico si ricompone, prima di lasciar spazio ad altri (magari proprio a Mario Draghi, diciamo dal 2024).
Col passare del tempo, invece, la sua opzione è diventata più concreta e più politica, è la carta che il Pd tiene pronta se si trovasse in condizione di proporre un nome in caso di stallo nel centrodestra.
L’elezione di Amato creerebbe però più di un problema al governo: difficilmente intorno al suo nome si coalizzerebbe una maggioranza larga quanto quella che oggi sostiene Draghi, il quale avrebbe così una giustificazione per rimettere il mandato nelle mani del nuovo presidente della Repubblica.
Non c’è ragione di supporre astio personale tra Draghi e Amato, ma certo il presidente del Consiglio non sarebbe felice di vedersi scavalcato nella corsa al Colle da un candidato quasi dieci anni più anziano e con un profilo internazionale molto più appannato, oltre che molto più legato alle filiere del potere romano, in particolare a quelle che risalgono fino a Massimo D’Alema.
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