La Costituzione non pone vincoli alla rielezione del capo dello stato perché non stabilisce limiti di mandato, né consecutivi né assoluti. Semplicemente la Carta indica le procedure per l’elezione e la durata del mandato. La presidenza di Giorgio Napolitano e la sua rielezione nel 2013, unite alle incertezze parlamentari dovute alla grande frammentazione partitica.

Il presidente in carica, Sergio Mattarella, ha espresso la volontà di non concorrere per un secondo mandato. Ma il tema della ri-elezione è stato nel dibattito partitico sin dagli albori della presidenza della Repubblica. Durante i lavori dell’Assemblea costituente il limite di mandato non venne espresso in considerazione dell’elezione indiretta. Quindi meno esposta alle derive autoritarie e plebiscitarie dell’elezione popolare diretta.

Einaudi, Gronchi e Segni

Il primo capo dello stato eletto dal parlamento, Luigi Einaudi ha tentato di essere rieletto, ma non è stato sufficientemente sostenuto anche perché non aveva un partito forte alle spalle (Pli) e la Dc già pensava a eleggere un suo uomo. Ha raccolto 70 voti nello scrutinio finale e 120 come massimo durante le votazioni che hanno decretato la vittoria del suo successore, Giovanni Gronchi. Il quale ha anche lui provato a essere confermato. Ma la sua stagione politica era chiusa e sulla sua strada c’era Aldo Moro che già lavorava per l’“apertura” a sinistra. La scelta morotea di sostenere Antonio Segni andava nella direzione di offrire una garanzia per la Democrazia cristiana, soprattutto per la componente destra. Al contempo era un segnale per la parte sinistra del partito in ragione del suo collocamento tra le correnti.

Gronchi ha raccolto il massimo di 45 voti in uno degli scrutini che hanno portato all’elezione del successore. Il mandato di Segni è durato meno di due anni, per dimissioni rassegnate per ragioni di salute, prima che venisse dichiarato l’«impedimento permanente». Pertanto, Segni non ha potuto cercare un secondo mandato. Ma il tema della rielezione è citato nel suo messaggio alle camere del 1963 (la prima volta che un presidente ha fatto ricorso alla facoltà conferitagli dalla Costituzione).

Segni, tra le altre questioni incluse nel messaggio, ha avanzato la proposta di abolire il “semestre bianco”, e di conseguenza la non immediata rieleggibilità del presidente, proprio per evitare qualunque «sia pure ingiusto sospetto, che qualche atto del capo dello stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione».

Saragat, Leone e Pertini

Nella foto: Sandro Pertini con la moglie Carla

Giuseppe Saragat è stato un presidente apprezzato sia in parlamento che tra i cittadini. Era però figlio del centro-sinistra, espressione cioè di una chiara stagione politica che stava perdendo la sua spinta propulsiva, e che dopo poco si sarebbe avviata stancamente verso l’epilogo. L’essere stato capo di un partito politico – il Psdi – dopo aver rappresentato un vantaggio al momento dell’elezione anche in virtù delle lunghe trattative e di mutui veti, è risultato un fardello identitario facilmente biasimabile dalla Democrazia cristiana decisa a insediare nuovamente un suo esponente al Colle. Nonché per le gelosie del Psi che voleva monopolizzare lo spazio governativo a sinistra dello scudo crociato e non intendeva compartire spazi con i “socialisti di destra”.

A conferma della solidità della presidenza Saragat e del suo profilo, sono arrivati comunque 56 voti durante le fasi dell’elezione del 1971. Giovanni Leone avrebbe forse voluto, e probabilmente potuto essere rieletto. Era discretamente popolare, forte all’interno della Dc, sebbene non abbastanza da sbaragliare gli avversari più temibili. Anche lui come Saragat però si è trovato in una congiuntura che rappresentava un cambio di fase, l’avvicendamento tra due stagioni politiche.

La incipiente fine dell’esperienza del compromesso storico e dei governi di solidarietà nazionale, definitivamente poi archiviati due anni dopo la chiusura del mandato di Leone dal congresso Dc. Leone, inoltre, è stato investito dallo scandalo Lockheed che, sebbene si sia rivelato poi inconsistente, ne ha minato la credibilità nella fase elettorale. Il rapimento, e poi l’omicidio di Moro, hanno rappresentato un’aggravante per la reputazione del presidente che, colpevolizzato, insieme all’intera classe politica, per non aver fatto abbastanza per liberare lo statista Dc.

Il ritrovato protagonismo socialista, con il nuovo segretario, Bettino Craxi deciso a eleggere quale presidente un esponente del Psi, ha stroncato ogni velleità di rielezione di Leone: il presidente uscente non ha ricevuto – unico caso insieme a Segni – nessun voto negli scrutini successivi per la scelta del nuovo capo dello stato. Sandro Pertini era troppo anziano alla fine del settennato (1985) perché potesse essere considerato per un secondo mandato. Sebbene fosse un politico con grande piglio e senza segnali evidenti di debolezza, ha dovuto rinunciare anche in considerazione dei suoi 89 anni.

Al di là della questione anagrafica, la partita rielezione era stata decisa in anticipo dalla chiusura della “parentesi” socialista. La Dc incombeva per recuperare centralità dopo avere ceduto la presidenza della Repubblica e del Consiglio dei ministri a due partiti laici per troppi anni.

Terminata la prospettiva dell’alternanza e di una possibile alternativa a sinistra, e con il declino della rilevanza socialista, la Dc sarebbe tornata centrale nello schema della coalizione e del governo. Craxi aveva altresì denunciato e non rispettato il cosiddetto “patto della staffetta” (alternanza a palazzo Chigi tra un esponente socialista e uno democristiano).

La candidatura di Francesco Cossiga incombeva da tempo ed è stata il prodromo alla stagione del pentapartito. Pertini ha ottenuto una dozzina di voti, segno che la strada alla successione era aperta.

Le picconate di Cossiga

L’atteggiamento di Cossiga nei confronti del sistema partitico ha contribuito sia a renderlo popolare, ma anche a chiudere anzitempo il dossier rielezione. Gli attacchi ai partiti, anche alla sua Dc, hanno aumentato la sua visibilità, ma erano chiaramente inadeguati in un contesto di elezione indiretta del capo dello stato.

Per ambire alla rielezione Cossiga avrebbe forse potuto tentare di rappresentare simbolicamente la richiesta di cambiamento che da più parti montava, ma le contraddizioni e i problemi della Dc lo hanno azzoppato.

Il parlamento uscente era delegittimato, e la stagione delle stragi massonico-mafiose ha segnato un passaggio storico, marcando le distanze da ogni possibile ambiguità. Il più giovane presidente della Repubblica ha ottenuto un massimo di 63 voti (prevalentemente missini) negli scrutini che hanno portato Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, a conferma di una quota di “popolarità” anche tra i parlamentari.

Scalfaro, Ciampi e Napolitano

LaPresse

Scalfaro non ha considerato lo scenario della rielezione, almeno non in misura tale da entrare nell’agenda politica. Ancora una volta a incidere è stato il contesto, decisamente mutato. Le leggi elettorali a impronta maggioritaria, la discesa in campo di Silvio Berlusconi, le elezioni del 1996, l’alternanza tra coalizioni e la prima volta dei post-comunisti al governo. Eventi che hanno certificato la nascita di un nuovo sistema politico. Rispetto al quale Scalfaro è risultato essere un interprete attento, ma complessivamente inadeguato per rappresentare il cambio di fase.

La sua elevata popolarità non era ripagata da un sostegno parlamentare ampio. Spesso osteggiato, soprattutto dal centro-destra per la sua partigianeria, sovente presunta, talvolta reale. Soprattutto a Scalfaro è mancato il riferimento politico, culturale e organizzativo dei partiti politici che lo avevano eletto e che erano letteralmente scomparsi al termine del suo mandato.

Quasi nessuno si è ricordato di lui (5 voti) durante le elezioni affollate di parlamentari e delegati che si accingevano a eleggere il presidente del nuovo corso politico.

Carlo Azeglio Ciampi non è giunto a valutare lo schema della rielezione. Oltre all’età (86 anni) la sua figura ha rappresentato una eccezione, sebbene fulgida, nel panorama degli inquilini del Quirinale. È stato sino a ora l’unico non parlamentare, un “tecnico”. È stato eletto dal centrosinistra, o meglio quale proposta politica dei partiti “ulivisti”, sebbene ha ottenuto un consenso assai più vasto. Questa condizione lo ha reso però inviso al centro-destra e in particolare a Berlusconi con il quale i rapporti sono stati tesi, senza mai raggiungere i livelli di guardia come durante il settennato di Scalfaro, ma comunque tali da identificarlo come un avversario di cui meglio evitare la conferma.

Che non è arrivata, né cercata e né proposta, e solo in quattro hanno scritto “Ciampi” sulla scheda quando le Camere si sono riunite per eleggere il capo dello stato del nuovo millennio. Giorgio Napolitano è stato (sino a ora) l’unico presidente a essere rieletto, sebbene abbia terminato anzitempo il mandato, come sottolineato nel discorso del secondo insediamento, e come pattuito con i partiti che (quasi) unanimemente gli avevano chiesto di restare. Napolitano era popolare e le elezioni politiche del 2013 avevano resto il sistema partitico altamente instabile e frammentato, con la presenza del M5s e il conseguente avvicinamento di posizioni tra Pd e Pdl. Cui si sono aggiunte una crisi economica e una politica tali da rappresentare una complessiva crisi “sistemica”, al limite del collasso istituzionale. In questo scenario, il parlamento riunito ha optato per una scelta confortante, e rassicurante, oltre ovviamente che per ragioni “episodiche” quali la deflagrazione del Pd che ha bruciato due suoi candidati: Franco Marini e Romano Prodi.

Come te nessuno mai

Al netto delle singole caratteristiche politiche personali, tra il 1948 e il 2013 le condizioni di contesto non hanno permesso una plausibile occasione per rieleggere il capo dello stato uscente. C’era la convenzione che l’uscente dovesse cedere il passo a un nuovo candidato, e inoltre la diffusa convinzione che fosse sufficiente aver servito per un settennato.

Ma, soprattutto, il sistema partitico era stabile, l’influenza dei capi partito rilevante e il negoziato, seppur difficile, conduceva a una soluzione. Condizioni assenti in vista di febbraio 2022.

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