L’antivigilia del voto si chiude con poche certezze. Giovedì però si vota, e per allora anche Pd, FdI e Lega dovranno dirimere gli ultimi dubbi sui consiglieri da votare (o non votare, nel caso del Pd). Nel campo largo volano le accuse reciproche
Tutti gli occhi sono puntati sul Pd. L’attesa consuma gli osservatori politici come, nei mesi passati, ha consumato i vertici della Rai scelti da Giorgia Meloni e in attesa di consacrazione. Ormai manca poco alla decisione definitiva dei dem, che dovrebbero ragionare mercoledì sera sulla strategia da tenere. Durante l’incontro tra i fedelissimi di Elly Schlein e parlamentari del Pd si dovrebbe decidere se percorrere oppure no la difficile strada dell’Aventino. Le bocche sono cucite. Martedì, alla fine della riunione dei capigruppo al Senato, Francesco Boccia si è trincerato dietro a un «vedremo» quando gli è stato chiesto cosa farà giovedì mattina il suo gruppo quando, a Montecitorio e a palazzo Madama, si tratterà di scegliere (oppure no) un consigliere amico da piazzare nel cda di viale Mazzini.
Le altre mosse
Si registrano movimenti dell’ultima ora anche dalle parti di Fratelli d’Italia, dove si attende la decisione finale della premier di ritorno da New York. I nomi più quotati come consigliere d’amministrazione d’area sono quelli della sua ex portavoce quando era ministra della Gioventù, Valeria Falcone, e quello della giornalista di Porta a porta e del Tg2, Federica Frangi, per un breve periodo anche collaboratrice a palazzo Chigi del braccio destro di Meloni, Giovanbattista Fazzolari, con un passato negli uffici stampa di An.
Anche i parlamentari della Lega aspettano l’indicazione sul candidato da votare, che – giurano fonti interne – non dovrebbe arrivare prima di giovedì mattina. A quel punto si capirà se sarà privilegiato Antonio Marano, più esperto delle dinamiche di viale Mazzini e più anziano, oppure Alessandro Casarin, leale ex socialista convertito al leghismo da tempo al timone della Tgr. Di sicuro ci sono solo i nomi portati da Forza Italia e Movimento 5 stelle: su Simona Agnes e Alessandro di Majo nessuno ha mai sollevato dubbi.
I candidati che circolano in area Pd non sembrano invece a prova di consenso universale: Antonio Di Bella ha riscoperto il gusto della diretta con le ospitate da Bruno Vespa e su La7, Giovanni Minoli non piace granché a destra perché considerato troppo incline a dire la sua su programmi e palinsesti e Roberto Natale scalda i cuori, ma quelli più a sinistra. Nessun riscontro dalla destra, almeno per il momento, sulla suggestione di “barattare” il voto a favore del commissario europeo Raffaele Fitto con una presidenza di garanzia a viale Mazzini. C’è poi chi fa notare il silenzio delle opposizioni sul ruolo di Mariastella Gelmini: l’ex calendiana non ha ancora comunicato ufficialmente il passaggio al gruppo di Noi moderati di Maurizio Lupi e quindi siede ancora in commissione Vigilanza per conto di Azione. Il voto per la conferma della presidenza in genere segue l’elezione dei consiglieri a stretto giro. Quindi non è chiaro se, quando Agnes dovrà cercare i suoi due terzi dei voti, Calenda avrà già sostituito l’ex ministra del governo Berlusconi.
L’antivigilia del voto si conclude dunque in un clima di sospetti all’interno del campo largo. Volano accuse reciproche: dal Movimento osservano che anche per il Pd non ci sarebbero problemi a votare i consiglieri in parlamento. «Il Media freedom act contesta l’intervento del governo sul servizio pubblico, non quello del parlamento». Replicano dal Pd che è tutta una mossa per giustificare la partecipazione del voto che per i Cinque stelle appare ormai scontata. Mentre la speranza che Schlein, Giuseppe Conte e gli altri leader del campo largo si accordino si fa sempre più flebile, tra i dem prende sempre più corpo l’ipotesi che l’inscalfibile sostegno di Maurizio Gasparri alla candidatura di Agnes sia rafforzato dalla certezza di una sponda del Movimento in Vigilanza in cambio di un’altra direzione.
Per ora da via di Campo Marzio replicano che i grillini usciranno dall’aula insieme al resto delle opposizioni: significherebbe negare il numero legale. Ma se anche solo una manciata di commissari dovesse rimanere in aula, il rischio sarebbe di fare il bis del caso Foa. Nel 2018, alla fine, il presidente riuscì a ottenere la conferma proprio perché le opposizioni non rimasero compatte e a uscire fu solo una parte dei parlamentari.
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