Nei giorni post-olimpici, molti hanno di nuovo chiesto all’ex generale e oggi onorevole Roberto Vannacci, come ai tempi dell’uscita del suo bestseller Il mondo al contrario, se ancora sostiene che i cittadini italiani con la pelle scura non siano rappresentativi dell’italianità, e che le persone lgbt non siano “normali”.

La risposta di Vannacci è rimasta la stessa, furbetta, di chi appunto vuole nascondere, ma non del tutto, il vero motivo di quell’affermazione: si tratta semplicemente di un fatto statistico, ribatte il generale; le persone con la pelle scura, e i membri della comunità lgbt, sono una minoranza in Italia, quindi non rappresentativi e non la “norma” (che non è un termine statistico, ma soprassediamo).

Se non avessi fatto il professore universitario, un mestiere che avrei voluto fare è il giornalista. Ed ecco, se avessi l’opportunità di intervistare il generale, di fronte a quelle risposte chiederei: ma se si tratta solo di ovvietà statistiche, perché dirle, scriverle e ripeterle? E perché proprio verso quei gruppi di persone, e mai, ad esempio, quelle con gli occhi blu o i capelli rossi?

Il generale potrebbe continuare a tergiversare, ma la speranza è che basti la domanda per cogliere le sue intenzioni. Quello che Vannacci ci sta dicendo è che, certo, neri o gay son cittadini anche loro. Ma che stiano al loro posto. Non sono come “noi”. Non si aspettino ugual trattamento, anche se formalmente garantito dalla legge, nella vita di tutti i giorni. Ci sono gerarchie, e al vertice ci si aspetta che ci siano le persone bianche, eterosessuali, cristiane, possibilmente di sesso maschile, e benestanti.

Gli altri vengono dopo, agli altri arriva quello che resta, se ne resta. Il paese, il potere, è “nostro”, è stato sempre così, e non ci sono ragioni per cambiare. Questa è la società, prendere o lasciare; accettare la posizione subalterna (socialmente, culturalmente, economicamente), ed eventualmente farsi guerra tra emarginati, o togliere il disturbo.

I pregiudizi diffusi 

Se queste fossero solo le opinioni di un Vannacci qualsiasi, non ci sarebbe una notizia. Allo svitato del paese tutti alla fine vogliono bene, ma nessuno davvero presta attenzione. Ma non è questo il caso. Lo dicono le centinaia di migliaia di copie vendute del suo libro, e il mezzo milione di persone che ha scritto il nome del generale su una scheda elettorale poche settimane fa.

Ce lo dice la ricerca sociale: una volta che qualcuno “sdogana” idee considerate estreme e ripugnanti, chi ne ha di simili, ma aveva un po’ di pudore a esprimerle, finisce a sua volta per rivendicarle apertamente, e così faranno quelli con idee simili a questo secondo gruppo, e così via, fino a che posizioni socialmente inaccettabili si trasformano in convenzionali, parte legittima del discorso pubblico.

Ce lo dicono le parole del cantautore Gian Piero Alloisio, che riguardavano Silvio Berlusconi ma sono facilmente adattabili: «Io non temo Vannacci in sé; temo il Vannacci in me».

Quello che si manifesta nel dare del tu all’ambulante magrebino ma del lei al vicino, bianco, di ombrellone; nell’assumere che, in ospedale, una donna col camice sia un infermiera e non la direttrice del reparto; nello storcere la bocca di fronte a un compagnetto di scuola dei propri figli che ha due mamme o due papà; nella (nemmeno tanto) inconscia equiparazione fra le parole “zingaro” e “ladro”, o “musulmano” e “potenziale terrorista”; nella convinzione che, ecco, se quella ragazza non avesse portato la minigonna o il rossetto rosso non sarebbe stata violentata; o che chi è indigente probabilmente non ha tutta questa voglia di lavorare.

Lo sdoganamento 

Questi pensieri non hanno, spesso, colore politico, e non riguardano una sola classe sociale o persone con un basso livello di istruzione. Attribuire queste posizioni solo all’ignoranza o al disagio sociale è riduttivo. Gli amanti del vecchio ordine sono dappertutto nella società.

E se adesso l’alfiere di questa visione è Vannacci, non scordiamoci che, solo pochi anni fa, Matteo Salvini, Giorgia Meloni e molti dei loro sottoposti, in un consiglio comunale di provincia, un comizio, un programma televisivo o nel parlamento nazionale, esprimevano apertamente opinioni molto simili.

Lo sdoganamento del peggior pensiero reazionario è in corso da anni, magari a ondate, ma ogni onda che si è infranta ne ha portata una più grande. Liquidare ogni singola uscita come una sparata clownesca e fuori tempo rischia di non coglierne il processo cumulativo. Di ognuno di questi rigurgiti bisogna invece chiedere conto, che si tratti di incalzare chi li emette, di fare pulizia nei partiti di chi anela a un mondo fatto di gerarchie e ingiustizie, o di non avere nessuna tolleranza specialmente in pubblico, nei luoghi di lavoro come nelle scuole.

Prima che si accetti tutto, che non ci sia più differenza fra la libertà formale di esprimere qualsiasi pensiero, e il dovere sociale e morale di isolare e sì, pubblicamente censurare quelle idee che invece vogliono erodere la società, e magari furbescamente sono fatte passare come “senso comune”. Ma è proprio per paura del senso comune che il manzoniano buon senso era andato a nascondersi. E sappiamo come poi andò a finire.

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