- Per Matteo Salvini è stata una domenica bestiale ma a Milano, davanti ai cronisti, indossa l’espressione più naturale che gli riesce per giurare che nella riunione dello stato maggiore della Lega «non c’è stata mezza polemica».
- Come Salvini, anche i Cinque stelle, l’altro partito che esce malconcio dalla tornata, provano a parlare di altro. In questo caso del referendum.
- E per quanto il vicesegretario Peppe Provenzano insiste sul «diritto e dovere» di costruire il «campo largo», i numeri certificano che il problema su scala nazionale resta lo stesso: Italia viva e Azione si sono posizionati per lo più sui candidati vincenti, anche di destra
Per Matteo Salvini è stata una domenica bestiale ma a Milano, davanti ai cronisti, indossa l’espressione più naturale che gli riesce per giurare che nella riunione dello stato maggiore della Lega «non c’è stata mezza polemica». È il primo leader a parlare, fiuta l’aria e anticipa gli altri, prima che i dati diventino imbarazzanti. Salvini è lo sconfitto numero uno dell’election day, ed è sconfitto su tre fronti. Il primo è il referendum, i quesiti sono stati votati dal 20,9 per cento, e cioè sono i meno votati di tutta la storia referendaria.
E lui di fatto resta solo, alterna il tentativo di dimenticare la botta al grido contro il complotto dei media. Ma i numeri dei flussi elettorali dicono una cosa severa sulla sua leadership: meno del 20 per cento dell’elettorato leghista ha barrato le cinque schede. Secondo fronte di sconfitta, le amministrative: «La Lega è arrivata avendo 49 sindaci. Se ce n’è uno in più andrà bene, se uno in meno male», dice. Ma deve subito ammettere che «stiamo perdendo Lodi».
E siamo solo all’inizio. Terzo, il voto certifica che il suo partito in tutta l’Italia deve cedere il passo a Fratelli d’Italia, persino nel “suo” nord. Giorgia Meloni, che in realtà porta a casa un risultato meno smagliante di quello a cui puntava, è comunque ufficialmente la leader del centrodestra.
Se Lega e Forza Italia dovessero stringere i bulloni della federazione per ricacciarla indietro, scatenerebbero una nuova fase della guerra nella coalizione. Salvini si giura pacifista con l’alleata: «Lo sforzo della Lega di essere collante del centrodestra, anche sacrificandosi in prima persona, è la strada vincente».
Ma ha sbagliato tutto: la sua linea ondivaga danneggia il partito, le vicende putiniane imbarazzano i colonnelli, i ministri passano il tempo ad attenuare le sue sparate o a dissociarsi. D’altro canto anche Meloni si aspettava di meglio se il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, uomo equilibrato, dice: «Se è confortante il risultato per FdI in questa tornata elettorale amministrativa, per le politiche sarà entusiasmante».
Parlare d’altro
Come Salvini, anche i Cinque stelle, l’altro partito che esce malconcio dalla tornata, provano a parlare di altro. In questo caso del referendum. Il flop degli avversari è l’unica vittoria che possono vantare. In mattinata intervengono in formato copia-incolla: «I quesiti referendari proposti dalla Lega sono stati percepiti dai cittadini per quello che effettivamente erano: inutili, pericolosi per la giustizia e distanti dalle reali esigenze del paese», dice la vicepresidente della Camera, Maria Edera Spadoni. I colleghi la seguono.
Ma l’attivismo dichiaratorio rallenta nel pomeriggio, quando arrivano le prime proiezioni dei risultati. È un’ecatombe. Sia dove il «campo largo» perde, come a Palermo, dove finiscono al 6 per cento; sia dove il campo largo vince al primo turno, come a Padova, dove ruzzolano giù fino all’1,5 per cento.
Le amministrative non sono un banco di prova favorevole per il movimento, ma il risultato questa volta non si può nascondere, anche se l’assenza del simbolo in molte città non consente neanche di apprezzare le dimensioni del tonfo. «Il M5s non riesce a stare sui territori», ammette Giuseppe Conte annunciando l’ennesimo rilancio, «siamo in ritardo e non abbiamo ancora i delegati territoriali».
Il fallimento del M5s stride con l’annuncio che invece arriva dal Nazareno, dove il Pd, rappresentato da Provenzano, Boccia, Malpezzi e Serracchiani (il segretario è a Parigi), si presenta a cronisti per il lieto annuncio: «Siamo il primo partito». Sarebbe dunque vinta la sfida con Fratelli d’Italia. In effetti il Pd, che partiva da «quota sei» – città amministrate – vince clamorosamente a Lodi, dove Letta aveva deciso di chiudere la campagna elettorale al fianco del 25enne Andrea Furegato che batte al primo colpo la leghista uscente.
Il «campo largo» conferma Taranto, vince Padova e a Parma, è in pole a Verona con un inaspettato exploit dell’ex calciatore Damiano Tommasi (che ha tenuto i leader alla larga), è avanti a Piacenza, persino nella destrissima Viterbo, va al secondo turno a Cuneo, Como, Lucca, Monza, Alessandria e Frosinone. Il punto è esattamente quello della vigilia: il «campo largo» non funziona. Perde a Genova e Palermo, ma anche dove vince, o arriva al secondo turno, ha una falla: i Cinque stelle hanno pochi voti.
E per quanto il vicesegretario Peppe Provenzano insiste sul «diritto e dovere» di costruire il «campo largo», i numeri certificano che il problema su scala nazionale resta lo stesso: Italia viva e Azione si sono posizionati per lo più sui candidati vincenti, anche di destra. E più il Pd si dimostra ecumenico, più mettono veti contro il M5s. Il Pd si laurea primo partito, il dilemma dell’alleanza le amministrative non l’hanno sciolto.
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