Il sogno della destra di mandare a monte i piani di Elly Schlein riesce solo per un terzo. Dopo l’inaspettatata vittoria di Marco Bucci in Liguria, dove la corsa di Andrea Orlando, che doveva essere in discesa, si è trasformata in una complicata scalata, l’Umbria saluta Donatella Tesei e archivia i primi (e finora unici) cinque anni di governo del centrodestra in regione.

Una sfida che era considerata sul filo, tanto che a chiudere la campagna della presidente uscente era andata perfino Giorgia Meloni, che in Emilia-Romagna si era limitata a mandare un videomessaggio. Ma quasi subito lo spoglio ha visto Tesei rimanere indietro rispetto al campo larghissimo della sindaca di Assisi, e candidata del centrosinistra, Stefania Proietti. A zavorrare Tesei sono state le liste che la sosteneva: lo scarto rispetto alle preferenze personali della presidente uscente è di oltre 4mila voti.

L’affluenza è rimasta appena sopra il 50 per cento, comunque in forte calo rispetto al 64,7 per cento delle ultime regionali. Fratelli d’Italia porta a casa 18mila voti e il 20 per cento dei consensi. Im regione i meloniani continuano a non brillare, dopo una sequela di passi falsi. Avevano già insistito per avere i candidati sindaci di Perugia e Terni per la destra, regalando la città delle acciaierie a Stefano Bandecchi e il capoluogo alla sinistra.

Seconda in coalizione è Forza Italia con un distacco sulla Lega di quasi due punti percentuali. Non è un caso che il primo a prendere posizione tra i leader di maggioranza è stato Antonio Tajani, che si è rallegrato dei consensi «raddoppiati» sia in Umbria sia in Emilia-Romagna.

I dati umbri

Gli amministratori locali azzurri candidati – capolista era Andrea Romizi, ex sindaco di Perugia – hanno convinto gli elettori più della lista degli alleati leghisti, fermi al 7,9 per cento. Bassa anche la lista personale di Donatella Tesei, che non è andata oltre il 4,7 per cento.

Non ha avuto effetti tangibili il tour ministeriale di Matteo Salvini, che ha puntato su promesse infrastrutturali per orientare il voto verso destra, soprattutto in una regione ancora relativamente poco collegata al resto della rete nazionale come l’Umbria.

L’ultima batosta per il partito del vicepremier era arrivata alla vigilia del voto, con il pronunciamento della Consulta sull’Autonomia: la Corte ha confermato la costituzionalità del testo, ma raccomandato una serie di modifiche che porteranno la maggioranza a riaprire il testo. Una battuta d’arresto che ha innervosito i leghisti che non si sono sentiti sostenuti dai partner di governo alla stessa maniera in cui loro si battono per la separazione delle carriere e il premierato, le altre misure identitarie di FdI e FI. Insomma, un magro bilancio per la Lega, che non viene compensato nemmeno dalla scenografica proposta di tagliare il canone Rai in manovra.

Un discorso a parte va fatto per Alternativa popolare. Stefano Bandecchi alla fine è riuscito, a differenza dei partner del centrodestra, a mantenere i circa settemila voti raccolti alle europee. La speranza del sindaco di Terni alla vigilia era quella di pareggiare almeno quel risultato: Bandecchi sognava addirittura il 3 per cento. Niente da fare, le sue performance a suon di Apecar sollevati a braccia e acqua “soffiata” in faccia a un cittadino ternano non hanno convinto altri elettori oltre a quelli che avevano già scelto Ap alle europee. Il suo resta comunque un risultato da attenzionare, dopo quello ottenuto in Liguria, dove dal nulla Bandecchi aveva portato a casa quasi 2.000 voti, da livornese, anche nel prossimo appuntamento alle regionali toscane, potrebbe dire la sua.

L’Emilia-Romagna

In Emilia-Romagna le condizioni di partenza erano totalmente differenti: alla fine, il centrodestra unito a sostegno della civica ciellina Elena Ugolini si ferma al 40 per cento. Cinque anni fa, in un momento di grazia, la coalizione aveva superato il milione di preferenze, pari al 43,6 per cento. Cambiano poi gli equilibri interni alla coalizione: la Lega, che aveva addirittura sfiorato la possibilità di espugnare la regione con Lucia Borgonzoni, a questa tornata si è fermata al 5,5 per cento, poco sopra la lista personale di Ugolini, e risulta in calo anche rispetto alle europee, quando si muoveva sul 6,5 per cento.

Viste le diverse leggi elettorali i risultati non si possono mettere sullo stesso piano, ma il trend negativo è evidente: nel 2019 il partito di Matteo Salvini era vicino al 32 per cento, con quasi 700mila voti. Un dato monstre che è migrato soltanto in minima parte in direzione Fratelli d’Italia: alla fine i voti per il partito di Meloni sono 131mila, pari al 24,4 per cento.

Un dato – nonostante i sondaggi nazionali vedano il partito della premier stabile – in calo rispetto al dato delle europee, dove FdI aveva totalizzato il 28 per cento dei consensi. Forza Italia riprende fiato: nel 2019 era ferma appena al 2,6 per cento, stavolta va al 5,7 per cento. Tutti dati che risentono però della scarsa affluenza: poco sopra il 46 per cento.

Tant’è vero che, nonostante la performance migliore in termini relativi, in numeri assoluti gli azzurri hanno perso circa 9mila voti. Il malessere, anche a livello nazionale, è tangibile. Giorgia Meloni, impegnata al G20 in Brasile, si limita ad augurare buon lavoro ai neopresidenti («al di là delle differenze politiche, auspico una collaborazione costruttiva per affrontare le sfide comuni e lavorare»). Anche Salvini è sulla stessa lunghezza d’onda. Chi polemizza è invece la deputata di Forza Italia Rita Dalla Chiesa: «Alla prossima alluvione se lo ricorderanno…». Quasi una minaccia all’indirizzo di chi ancora si sta rimettendo in piedi dopo l’ultimo disastro ambientale. Non certo il modo migliore per conquistare elettori.

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