Premierato, autonomia, giustizia. Visto da fuori il governo italiano sembrerebbe molto ambizioso, con un vasto programma di riforme istituzionali, pronto a cambiare radicalmente il paese.

Invece, ad una analisi più approfondita, l’impressione è che la maggioranza si sia gettata a capofitto sulle riforme istituzionali perché non ci sono idee e modi per fare altro, soprattutto sul fronte dell’economia e del welfare.

Pesa l’eredità del superbonus, c’è la spesa vincolata del Pnrr e da pochi giorni anche la procedura d’infrazione aperta dalla Commissione europea sul deficit in eccesso con conseguente piano di rientro.

Inoltre, i mercati sono nervosi per l’instabilità politica di Francia e Germania ma colpiscono anche l’Italia, paese ad alto debito e crescita flebile. Questo scenario riduce la cassa a disposizione del governo e costringe a virare su riforme a costo zero.

Progetti di piccolo cabotaggio 

Tuttavia, se si esclude la riforma della giustizia, premierato e autonomia sono progetti di piccolo cabotaggio. Il primo è frutto di un compromesso a ribasso dopo aver cassato il semipresidenzialismo per ragioni di debolezza politica, la seconda rischia di risolversi in un aggravio di spesa per lo stato che incasserebbe meno dal nord e spenderebbe di più per il sud.

In aggiunta, su tutte queste riforme possono tenersi referendum costituzionali o abrogativi con il rischio che siano più gli elettori contrari o disinteressati che quelli a favore. Dunque il governo sembra essersi infilato in un vicolo cieco, una strada che porta inevitabilmente all’indebolimento.

Ciò sia per le condizioni economiche generali sia perché delle mezze riforme istituzionali sono più facili da affrontare rispetto ad una grande riforma del fisco, degli ammortizzatori sociali o delle politiche industriali.

Queste ultime richiederebbero di scontentare alcune fasce di elettorato o alcune corporazioni e di andare verso una diversa composizione del bilancio dello stato. Una tale situazione conduce ad un paradosso: il governo a trazione sovranista, che voleva provare ad allentare i vincoli esterni, si ritrova sempre più dipendente dall’Unione europea poiché quest’ultima decide sulla politica monetaria e di bilancio e su gran parte degli investimenti pubblici.

Se Germania e blocco del nord decideranno di tornare all’austerity, o anche ad una forma attenuata della stessa che preveda la semplice attuazione del nuovo patto di stabilità, lo spazio di manovra per il governo Meloni si ridurrà rispetto ai primi due anni. La seconda parte della legislatura rischia di essere caratterizzata da frenata economica e fallimento delle riforme istituzionali con conseguente riduzione del consenso elettorale.

La strategia da adottare 

Meloni è così costretta ad aggrapparsi ai tavoli europei, contando sul fatto che difesa, transizione ecologica e competitività – nuove parole d’ordine dell’Ue – richiedono un surplus di investimenti pubblici e sperando che la disciplina di bilancio venga temperata da nuove iniziative comuni europee. Meloni, adesso che ha ancora forza politica, dovrebbe smettere di limitarsi a reagire soltanto alle iniziative europee e provare ad intestarsi qualche nuova proposta.

Ciò a maggior ragione se Fratelli d’Italia e Forza Italia sosterranno il bis di Von der Leyen. In questo caso l’euroscetticismo, che si traduce in diffidenza verso le iniziative comuni che oramai ha poca presa anche su gran parte dell’elettorato di destra, dovrà essere archiviato a favore di un realismo europeista che consenta, almeno in alcuni settori strategici sia per l’Europa che per l’Italia, di andare avanti con l’integrazione.

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