- Il poliziotto era molto gentile, si è scusato per la convocazione urgente, mi ha spiegato di essere stato incaricato dalla Digos di una città del nord Italia di farmi alcune domande.
- C’era un’indagine che mi riguardava a seguito di una denuncia per diffamazione. «Una denuncia di chi?». «Di Matteo Salvini», mi ha risposto il commissario con l’espressione di chi mi aveva appena diagnosticato un herpes zoster.
- Matteo Salvini. Quello che “basta reati d’opinione”, quello che ha contribuito ad affossare la legge Zan perché «un conto sono le minacce, gli insulti o l'istigazione al terrorismo, altra cosa sono le idee, belle o brutte, che si possono confutare ma non arrestare».
È una giornata qualunque, di quelle molto fredde in cui si ha solo voglia di rimanere a casa e farsi un tè caldo quando vedo sul display del telefono un numero fisso che lampeggia. Ormai i numeri fissi con prefisso della mia città per me vogliono dire solo due cose: o è un tizio che mi comunica che il contratto col mio operatore telefonico è dispendioso e obsoleto e se passo con lui mi regala anche un green pass usato poco, oppure è un commissariato/una stazione.
Nel secondo caso, c’è sempre una certa familiarità nei discorsi, tipo «Buongiorno. Sono sempre io, il commissario, devo notificarle una cosa… quand’è che sarebbe libera?» (la cosa è quasi sempre una querela, ma le forze dell’ordine di solito usano al delicatezza di chiamarla “cosa” per non essere irriguardosi, un po’ come quelli che quando ti muoiono gli animali non dicono «è morto il tuo Fuffy» ma «Fuffy è passato sotto il ponte dell’Arcobaleno»).
Così finisce che io e il commissario passiamo dieci minuti a incastrare il mio parrucchiere con i suoi figli da prendere a scuola e alle volte, ormai, mi propongo anche di passare a prenderglieli io e di tenerglieli direttamente fino alla prossima notifica di querela, così è più comodo per entrambi. Fatto sta che quel giorno di freddo polare a Milano il numero fisso che mi stava chiamando era, appunto, quello di un commissariato di polizia. Mi si chiedeva di andare subito lì perché «è una cosa delicata». Non la solita «cosa», ma cosa «delicata».
Ho immaginato una roba grossa. Ho pensato alle recenti battute fatte su Bin Salman, poi mi sono detta che non era mica una convocazione all’ambasciata saudita, era un commissariato di polizia. Italiano. Sono andata. Il poliziotto era molto gentile, si è scusato per la convocazione urgente, mi ha spiegato di essere stato incaricato dalla Digos di una città del nord Italia di farmi alcune domande.
C’era un’indagine che mi riguardava a seguito di una denuncia per diffamazione. «Una denuncia di chi?». «Di Matteo Salvini», mi ha risposto il commissario con l’espressione di chi mi aveva appena diagnosticato un herpes zoster.
Matteo Salvini. Quello che “basta reati d’opinione”, quello che ha contribuito ad affossare la legge Zan perché «Un conto sono le minacce, gli insulti o l'istigazione al terrorismo, altra cosa sono le idee, belle o brutte, che si possono confutare ma non arrestare».
Quale minaccia?
Ero dunque curiosa di sapere quando lo avrei minacciato, insultato (pubblicamente, intendo, nell’intimità alzo le mani e mi dichiaro colpevole) o quando avrei chiesto a qualcuno di mettergli del tritolo nel ghiaccio del mojito. Il commissario mi ha chiesto se mi ricordassi di aver scritto un post su di lui, poi me l’ha mostrato, stampato. Guardo il post.
C’è l’immagine di un ragazzo giovane, quella di un funerale, una bara in mezzo a un prato, incorniciata in una di quelle cartoline tanto in voga sui social di Salvini e dei salviniani, con le scritte a caratteri cubitali così anche quelli che si sono fermati alla prima elementare capiscono con chi ce l’ha il Capitano senza dover leggere più di 50 caratteri.
Naturalmente, in foto, si vede anche Salvini, seduto di spalle. Che, a onor del vero, non è preso a fare selfie come ai funerali delle vittime del ponte Morandi, è già qualcosa.
Il mio commento nel post era «La presenza di Salvini e la Meloni al funerale di un ex ragazzo di Amici morto per una leucemia fulminante, perché? È un funerale in cui la presenza della politica dovrebbe significare qualcosa? No, solo passerella. Con tanto di cartolina da pubblicare sui social». Dunque, per questo post su Facebook Matteo Salvini si è rivolto alla Digos.
Ora, io non so bene su cosa si stia indagando e su cosa mai si discuterà in un (eventuale) processo, ma ammetto di averci pensato parecchio. Penso, sì, che quella sua presenza sia stata passerella politica, visto che ha pubblicato le immagini di se stesso al funerale sui suoi social, social tramite i quali fa propaganda politica. Non ho cambiato idea.
Penso che non la rinnegherò dovessi anche essere mandata al rogo, sul fuoco acceso per il dio Po a Pontida. Penso che lui, in caso di processo, dovrà portare prove sulla sua reale, genuina partecipazione emotiva agli eventi disgraziati della vita (dunque potremmo chiudere le pratiche in un quarto d’ora) e io del suo cinismo politico, dunque il tutto potrebbe durare quanto il maxiprocesso.
Fatto sta che il politico che ci ha molestati per mesi con lo slogan «le idee non si processano» per permettere a chiunque di picchiare un omosessuale senza l’aggravante dell’omofobia, vuole il carcere per chi pensa che lui sia un cinico calcolatore, con l’aggravante della cartolina da boomer sui social.
A saperlo, anziché chiamarla passerella la definivo «deplorevole carnevalata da gay pride», magari chissà, questa me la faceva passare.
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