Il vicepremier ha rilanciato la richiesta di tenere un proprio presidente in una delle regioni simbolo del leghismo. E rivendica la centralità nella coalizione di destra
Terminata la campagna elettorale, chiuse le urne, acquisito il risultato, Matteo Salvini è tornato alla sua routine fatta di polemiche, avvertimenti agli alleati che portano alla strategia del logoramento. Con un paletto fissato dal vicepremier: senza la Lega, la coalizione di centrodestra non riesce a vincere. Insomma, nonostante le continue flessioni di consensi, le percentuali leghiste sono necessarie alle forze attualmente al governo. Giorgia Meloni è avvisata.
Fronte del Veneto
La linea del Piave della Lega è stata tracciata per la presidenza della regione Veneto: «Ovviamente era e per quello che mi riguarda rimarrà orgogliosamente a guida leghista», ha scandito il leader leghista. Nessuna concessione a Fratelli d’Italia, che già ha virtualmente candidato il fedelissimo di Giorgia Meloni, il senatore Luca De Carlo. Se non sarà Luca Zaia, stoppato dalla regola del secondo mandato, arriverà un altro nome da casa Salvini.
Almeno queste sono le intenzioni, che sembrano il trailer di un film lungo un anno. Pieno di veleni e distinguo. Del resto già nei prossimi giorni potrebbe palesarsi lo scontro al Senato sull’introduzione del terzo mandato per i presidenti di regione: la Lega «sta valutando di presentare l’emendamento», ha confermato il capogruppo a Palazzo Madama, Massimiliano Romeo. Già in commissione c’era stata la spaccatura con Forza Italia e Fratelli d’Italia che hanno affossato la proposta. Fare il bis in aula sarebbe però ancora più rumoroso.
E che la navigazione del governo Meloni non sarà tranquilla, è stato chiarito da un altro ragionamento del ministro delle Infrastrutture: «In Abruzzo siamo stati determinanti. I nostri 43mila voti sono quelli che hanno fatto vincere il centrodestra», sono le parole che forgiano l’immagine di una Lega ago della bilancia. O comunque come una forza irrinunciabile.
E se nel rapporto con gli alleati, Salvini conferma la linea, nulla cambia nemmeno sulla gestione del partito. «Non ho mai parlato di congressi ad aprile», ha detto allontanando l’ipotesi di una competizione interna per provare a blindare la sua leadership. Un’operazione che ha creato malumori, soprattutto tra chi preferirà fare un bilancio dopo le Europee.
Vannacci e anti-europeismo
Per le elezioni di giugno, comunque, la volontà è quella di non spostarsi di un millimetro rispetto a quanto annunciato. A cominciare dalla candidatura del generale Roberto Vannacci. «L’Europa va cambiata e penso che occorrano persone che non sono compromesse con il sistema, che vogliono un’alternativa». Un corteggiamento serrato, con i posti da capolista in varie circoscrizioni già pronte, che però non ha ancora convinto il militare: «Ringrazio il ministro Salvini, vado avanti per la mia strada, continuo a fare la mia vita e quando avrò deciso lo comunicherò a tutti». Si legge una certa lusinga nelle avances politiche della Lega, ma resiste il desiderio di non farsi imporre accelerazioni. Ed è la cartina di tornasole di quale sarà l’eventuale rapporto tra Vannacci e Salvini.
Un matrimonio di interessi tra chi cerca un taxi per pesare il proprio consenso, come il generale, e chi ha la necessità di spingere all’insù le percentuali di consenso.
La rotta è quella del vecchio armamentario contro l’Unione europea, che riporta alle origini del percorso salviniano. L’ennesimo affondo contro Bruxelles è maturato sulla direttiva per le case green, definita «l’ennesima follia europea». Da qui la road map della Lega per la campagna elettorale: «L’8 e il 9 giugno, chi sceglie la Lega sceglie più Italia e meno Eu». Più anti-europeista di questo, c’è davvero poco. Ma tutto è utile a marcare la distanza da Meloni, che va a braccetto con Ursula von der Leyen.
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