«Alessandro Giuli è un ex fascista presentabile». Il giudizio è di uno che conosce bene il nuovo ministro della Cultura, nominato in tutta fretta dopo che Gennaro Sangiuliano è stato accompagnato alla porta di via del Collegio romano travolto dal caso Boccia, anche se ufficialmente la decisione di presentare le dimissioni è stata sua. Giorgia Meloni ha deciso di rivolgersi a qualcuno che dal suo punto di vista è più strutturato e che, se possibile, è ancora più fedele e fidato dell’ex direttore del Tg2, portato in dote dalla correntona meridionale di stampo tatarelliano del Msi di cui hanno fatto parte Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri.

Giuli, che da fine 2022 guida il MAXXI, è del 1975, più grande di soli due anni di Giorgia Meloni, condivide con lei il retroterra culturale di Colle Oppio. Chi lo conosce da allora lo descrive come figlio del rautismo romano, dunque intrinsecamente opposto alla corrente di Sangiuliano.

Instaura un fortissimo legame con Pietrangelo Buttafuoco (l’altro candidato alla successione dell’ex ministro, considerato però una testa troppo libera a palazzo Chigi e fondamentale alla strategica Biennale), frequenta il giro degli Alemanno boys, per poi dare vita, nel 1992, a Meridiano zero.

Ad accompagnarlo nella transizione da militante romanista d’estrema destra pronto a battersi anche fisicamente ogni volta che ce ne fosse bisogno a sofisticato intellettuale benvisto anche nei salotti televisivi di sinistra è Giorgio Dell’Arti, che lo porta al Foglio del lunedì. A valle di una rielaborazione molto intensa della militanza d’estrema destra Giuli cambia pelle, pur mantenendo il punto sui valori conservatori. È sotto l’ala di Giuliano Ferrara che compie il passaggio da enfant prodige della destra più nera a cronista parlamentare «molto capace», dice chi l’ha visto all’opera.

Il solstizio

Ma Giuli non sarà mai soltanto un cronista. Dotto e strutturato – lo riconoscono anche da sinistra – la sua cultura latina e il neopaganesimo a volte continuano a prendere il sopravvento. A ogni ricorrenza degli antichi romani regala alla sua testata uno scritto in tema, che sia Iuppiter invictus o gli Agonalia.

Uno dei più antichi è il dialogo tra Lucio Giulio Glanico e Giulio Pomponio Leto: «O mio Lucio, simile a un delfino che rincorre la scia biancheggiante della nave Argo, attratto dalla cetra di Orfeo, tu torni qui mentre celebro i riti del nuovo anno aperto dal Padre Giano. Quale segno più fausto?» Il nuovo ministro della Cultura si segnala anche per un feroce ritratto di Gianni Riotta, rimasto negli annali come uno dei pezzi giornalistici più devastanti delle epoche recenti.

Nel 2007 si consuma il parricidio politico: la rielaborazione della sua gioventù porta a una dolorosa cesura con il suo mondo d’origine con l’uscita de Il passo delle oche pubblicato nientemeno che da Einaudi.

A partorire l’idea piuttosto irrituale di affidare a un autore con il curriculum di Giuli un pamphlet dedicato all’emancipazione – mai riuscita, dal suo punto di vista – di Alleanza nazionale dal fascismo, è Andrea Romano, all’epoca direttore della saggistica. Il saggio gli costerà il rapporto con Gianfranco Fini.

Trasformismi

Da condirettore, nel 2017, assiste alla nomina di Claudio Cerasa a successore di Ferrara: una decisione che mette la parola fine al suo rapporto con il Foglio. Poco tempo dopo il cronista neopagano si trova – con trasformismo invidiabile – al timone di Tempi, periodico d’area di Comunione e liberazione: il suo primo numero, dedicato al ritorno dello spirito del lupo in occidente, non incontra esattamente i gusti del pubblico.

Segue un passaggio poco fortunato in Rai, dove nel 2019 diventa opinionista fisso di Annalisa Bruchi, e dove si guadagna i favori dei sovranisti gialloverdi con un servizio sul signoraggio bancario. Nel 2020 gli affidano Seconda linea insieme a Francesca Fagnani, ma chiude alla seconda puntata. «Programma sbagliato», è il commento secco che fanno a viale Mazzini. «Giuli è un ottimo commentatore, non è automatico che sia anche un buon conduttore».

Nel 2021 ci riprovano con Vitalia, che va in onda a tarda notte con Giuli che racconta di antichi culti romani anche vestito di sole pelli animali, ma si guadagna complimenti inaspettati come quelli di Michele Anzaldi, all’epoca severissimo segretario della commissione Vigilanza Rai di Iv.

L’esperienza al MAXXI, figlia della conclusione anticipata dell’èra Melandri, inizia in maniera devastante, con un confronto tra Morgan e Vittorio Sgarbi che declina irrimediabilmente verso la misoginia più inaccettabile. Giuli si deve confrontare con critiche pungenti, ma prova a rilanciare dedicandosi all’arte contemporanea.

Gli viene riconosciuta una marcia in più rispetto a Sangiuliano anche su questo: dove l’ex direttore del Tg2 si fermava alle conoscenze storiche e politiche, Giuli ha impiegato i suoi anni al MAXXI per dare la sua interpretazione della cultura conservatrice anche per quanto riguarda cinema, arte, design e archeologia. Il museo romano gli ha offerto la piattaforma giusta per intessere rapporti con altre realtà in Italia e nel resto del mondo, con l’ambizione – dicono – di costruire una “diplomazia geoculturale”.

Nel frattempo, sua sorella Antonella, dopo aver lavorato come portavoce del ministro-cognato Francesco Lollobrigida, è approdata alla Camera dei deputati, dove è stata assunta all’ufficio stampa dell’istituzione.

Insomma, la famiglia Giuli ha un posto particolare nel clan Meloni. E il neo ministro viene descritto come un consigliere già molto ascoltato da Meloni. Ora dovrà cercare di trasformare in realtà il sogno della destra, finora mai realizzato, di imporre finalmente la propria egemonia culturale. «Ma lo farà in silenzio», promettono. Non come Sangiuliano che sbandierava a destra e sinistra le sue mostre su Tolkien, è il non detto che circola nella destra.

Qualcuno sottolinea come il suo biglietto da visita è però quello di un intellettuale tutt’altro che organico, foss’anche soltanto per il suo orientamento “religioso”. Ma la suggestione che si tratti di un azzardo nominarlo ministro viene spazzata via dalla consapevolezza che il suo eclettismo va a braccetto con un rispetto inscalfibile per le liturgie del potere.

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