La segretaria chiede il silenzio sulle risse Conte-Renzi, che logorano la coalizione che non c’è. Serve una formazione moderata, ma non è all’orizzonte, e comunque impensierisce i riformisti
C’è un bivio, dopo la sconfitta del centrosinistra in Liguria affasciata al risultato smagliante del Pd, un bivio a cui una parte del gruppo dirigente democratico vorrebbe spingere Elly Schlein. Per farle prendere una decisione, metterla in chiaro e comunicarla. A quel bivio lei non vuole fermarsi. Anzi, quel bivio per lei non esiste: crede di camminare su un’altra strada.
Il bivio non è, come invece semplificano alcuni commentatori, scegliere fra l’alleanza con M5s e quella con il mitologico “centro”, rappresentato simbolicamente da Matteo Renzi, rimasto fuori dalla coalizione ligure e per questo curiosamente considerato il vincitore morale della sconfitta. Il vero bivio che più seriamente le viene segnalato è quello fra una ripida discesa che conduce naturaliter a una «strambata a sinistra», dunque un’alleanza con Conte e rossoverdi, e un vialone in salita ma più largo, dove l’alleanza è con gli uni ma anche con una qualche formazione di centro, ancora simbolicamente rappresentata da Renzi (perché Renzi, e non Calenda per esempio? Perché Conte ha già dichiarato M5s «incompatibile» con Iv, e includere il senatore fiorentino rappresenta il simbolico «non sottostare ai diktat di Conte»; che poi questo significhi perdere Conte, è un corollario non preso in considerazione).
La lunga pax del Pd
Dal giorno della sconfitta, la segretaria ha diramato l’ordine di scuderia ai suoi di «non fare polemica» con i Cinque stelle e non sottolinearne il tonfo in Liguria. Vengono riferiti confronti ruvidi con quei pochi che hanno osato segnalare la necessità di affrontare il nodo politico. E questo dopo mesi di “pax schleiniana”, un periodo di rarefazione del dibattito interno offerto alla segretaria, e rivendicato da lei con l’espressione «non c’è mai stato un Pd così unito». Vero, in un senso: raramente un segretario dem ha potuto godere di un gruppo dirigente così, tutto sommato, autodisciplinato, nonostante alcune differenze serie e irriducibili sulla politica estera e sulle alleanze. Ma si capisce: senza Schlein questo gruppo dirigente non ha molte alternative.
Il problema di definire un perimetro delle alleanze però c’è, per l’ala riformista; o almeno c’è quello di darsi un metodo per evitare, di battibecco in battibecco, di logorare l’immagine della coalizione futura prima ancora che nasca. Per Schlein invece casomai il problema «ci sarà»: vede come la peste l’idea di precipitare in una discussione che al palato di una “movimentista” come lei sa di politicismo. E se Conte e Renzi intanto litigano, peggio per loro: al Nazareno sono convinti che una parte importante della crescita del Pd sta in quella scelta-manifesto, «ostinatamente unitari», che rassicura l’elettorato di centrosinistra e gli restituisce fiducia.
Se non hai una soluzione non hai un problema: il principio, attribuito a Aristotele e a Confucio, era anche la massima di grandi vecchi comunisti. Che non intendevano negare il problema, ma che il problema si affronta solo quando si ha una soluzione.
Il sole centrista non sorge
Il “problema” Conte, ovvero le pulsioni dell’ex premier in bilico fra sentimenti unionisti progressisti e tentazioni isolazioniste (a seconda che prevalga nelle sue scelte la linea del suo consigliere Travaglio o quella del suo amico Bettini, come scriviamo qui a fianco), potrebbero risolversi alla fine dell’assemblea del M5s. Forse.
Invece non si vede all’orizzonte la soluzione del problema della gamba “centrista” della coalizione. Perché il tema nel Pd è bifronte: favorire, chissà come poi, la nascita di un centro; ma anche dare cittadinanza piena alla componente moderata e liberate al proprio interno.
L’invocazione della nascita di un centro del centrosinistra al momento è giusto un wishful thinking. Renzi, anche al netto del veto di Conte, ha ampiamente dimostrato di essere adatto alla sua scomposizione, non alla ricomposizione; e così Calenda, anche se gode di migliore stampa presso i Cinque stelle. Il sindaco di Milano Beppe Sala si offre alla leadership di una cosa centrista; ma la cosa non c’è e forse si aspetta che qualcuno gliela apparecchi a tavola. Come se il Pd dovesse favorire, magari per gemmazione, un campo fuori da sé così indispensabile a una coalizione competitiva. Ma qui c’è il vero bivio.
Occhio al Pd di Veltroni
Il Pd «può ancora crescere», giura Schlein: consolidare il partito è uno dei mandati della sua segreteria. L’altro, però, è costruire lo schieramento: e nel 2008 neanche lo stellare Pd del 33 per cento di Veltroni bastò a vincere, neanche in alleanza con Italia dei valori, la vecchia zia di M5s (non sarebbe bastata neanche l’alleanza con La sinistra arcobaleno, che comunque fu schifata). Se davvero nascesse un’ipotesi centrista, se davvero Schlein volesse benedire la costruzione di una “cosa” «moderata e liberale» (copy Bonaccini), possibilmente rappresentativa di un elettorato vero e non frutto di interviste alla stampa, il rischio sarebbe che qualcuno nel Pd, impensierito dalle «strambate a sinistra», finirebbe per esserne attratto.
C’è chi dice dall’inizio che la segretaria scommette su questo. C’è chi la avverte che sarebbe una mutazione genetica del Pd «plurale». Due posizioni che rivelano che il bivio sta dentro, e molto più in profondità delle risse fra Conte e Renzi. Ma forse anche la soluzione.
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