«Con me il Pd tornerà al governo vincendo le elezioni. La mia storia politica nasce dall’opposizione alle grandi intese». La frase di Elly Schlein sembra buttata là, quasi casualmente, in una risposta a una domanda fra le altre, in un’intervista concessa al Corriere della sera mercoledì scorso.

Il tono è noncurante, come di chi dice un’ovvietà. Con la stessa casualità, però, lo stesso giorno in cui questa frase è stata pronunciata, il presidente dei senatori Francesco Boccia, alla festa dell’Unità di Roma, ne ha buttato là una simile, tirandosi peraltro l’applauso dei suoi: «La scelta di appoggiare il governo Monti, a noi è costata una leadership vera, di sinistra, quella di Bersani».

«Da lì si è accelerato lo scollamento tra periferie, popolo ed élite, che poi a loro volta sono diventate sempre più autoreferenziali», «Nella storia del Pd è successo due volte e abbiamo pagato un prezzo alto. Con il governo Monti e dopo il governo Draghi. Oggi non sarebbe possibile, il Pd di oggi chiederebbe il voto».

Curiosa coincidenza. Perché per quanto si possa dubitare della solidità del governo Meloni – e nel Pd ogni giorno ha i suoi delegati a girare il coltello nei litigi fra Lega e FdI, e fra Lega e Forza Italia – il tema della caduta dell’esecutivo non è all’ordine del giorno.

Il congresso è finito (ora sì)

Neanche troppo curiosa, però: perché oggi la leader del Pd è, per la prima volta, nella travagliata storia del suo partito – solo diciassette anni e ben undici segretari – nell’inedita condizione di avere la ragionevole certezza di durare fino alla fine del suo mandato. Da Veltroni, a Bersani, a Renzi a Zingaretti, non è mai successo a un segretario eletto alle primarie.

Con l’inaspettato risultato delle europee (il 24,1 per cento) e l’ottimo risultato alle amministrative, invece ora Schlein ha blindato definitivamente la partita vinta con il congresso: ha dimostrato di essere solida. E molto meno improvvisata di quello che fin qui dava a vedere.

Per esempio, per le europee ha imposto «liste aperte e plurali»: cioè ha incluso tutti gli amministratori, per lo più vicini alla minoranza riformista, che hanno portato a casa un gran risultato, che alla fine è stato un risultato per il «suo» Pd.

Altro esempio: dopo aver accettato di lasciare il posto di presidente di S&D alla uscente spagnola Iratxe García Pérez, gli incarichi europei che toccavano al Pd, oggi prima delegazione dei socialisti, alla fine sono andati a quelli (e quelle) che ha scelto lei: la franceschiniana (e fedelissima) Camilla Laureti alla vicepresidenza del gruppo, già eletta; Nicola Zingaretti alla guida della delegazione (sarà votato nei prossimi giorni). E infine Pina Picierno alla vicepresidenza del parlamento (il voto è previsto per martedì prossimo), un posto ambito in prima battura dai due mister preferenze della minoranza riformista, Stefano Bonaccini e Antonio Decaro.

Ora la segretaria si può preparare con relativa tranquillità la lunga navigazione che la porterà verso le politiche del 2027, sempreché il governo duri così a lungo. In mezzo ci sono le elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Umbria, a fine anno, dove la scelta dei candidati è già praticamente fatta: il sindaco di Ravenna Michele De Pascale e la sindaca di Assisi Stefania Proietti.

Poi il voto di Campania, Puglia e Toscana, la cassaforte dei voti del Pd.

I sismografi delle correnti

Che la sua leadership ormai sia indiscutibile si capisce, come sempre nel Pd, dai movimenti carsici delle correnti. Piccole e grandi scosse di assestamento. I sismografi del Nazareno rilevano qualche picco anomalo: Areadem, che l’ha fortemente sostenuta al congresso, procede ad un allargamento in direzione di un “correntone” che includa anche Art.1, curioso connubio fra centristi e sinistra, sotto la guida rispettivamente di due ex ministri del governo Conte II e Draghi, Dario Franceschini e Roberto Speranza.

Della partita sarebbe anche Dario Nardella, ex sindaco di Firenze, sontuosamente sostenuto da Areadem nella circoscrizione centro. In un primo momento anche gli ex lettiani “neoulivisti” erano della partita. Dopo le europee la cosa è meno pacifica: al nostro giornale il loro capofila Marco Meloni, senatore, ha spiegato che «non ha senso che il partito rimanga ingabbiato negli schemi di un congresso di un anno e mezzo fa. È un assetto da superare. Ma non lo si fa con nuove correnti».

Scettica anche una parte di Art.1, capitanata da Arturo Scotto, che ha già espresso i suoi dubbi sull’operazione.

Fuori dalla partita è la sinistra di Andrea Orlando, Peppe Provenzano e Marco Sarracino: pensa alle battaglie concrete del nuovo Pd, e alle alchimie interne preferisce una riforma del partito per indebolire i «cacicchi» e trasformarlo stabilmente nel mix (schleiniano) che ha vinto alle europee.

Quanto alla minoranza, che al congresso ha sostenuto Bonaccini, è già divisa in due o forse tre: il presidente del partito, e leader di Energia popolare, è dall’inizio l’interlocutore privilegiato se non unico della segretaria, a cui fin qui ha assicurato il governo del Pd; il presidente del Copasir Lorenzo Guerini guida la componente di Base riformista: è la più scettica nei confronti di Schlein ma, in accordo con la segretaria, marca rocciosamente il confine filoatlantico del Pd, cosa che consente alla stessa segretaria di sbilanciarsi a sinistra senza perdere la rotta di un partito socialista europeo.

Infine c’è una piccola pattuglia che vorrebbe riconoscersi intorno a Paolo Gentiloni, ma non è ancora chiaro se lui abbia voglia di farsi riconoscere leader di un’area interna, e chiaro non lo sarà fino a novembre, cioè finché resterà commissario europeo.

La segretaria, irritata dalla stessa parola “corrente”, ora, è la novità, guarda senza ostilità l’allargamento della sua ex maggioranza congressuale, e il conseguente dimagrimento della minoranza interna. Il suo stile di guida sarà quello inaugurato, con successo, nelle liste «plurali» delle europee: plurali ma decise da lei, aperte a chi portava radicamento reale (e voti) al suo Pd.

Purché sia chiaro che il partito sarà quello “fra la gente” e lei continuerà a fare “Schlein fra la gente”: nessuno si metta in testa di imbrigliarla, o di usarla come front-woman del solito vecchio patto fra correnti; o di immaginare manovre di palazzo, o di Nazareno. Perché, come appunto ha detto, «con me il Pd tornerà al governo vincendo le elezioni». In cui la sottolineatura è «con me», oltreché su «elezioni».

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