- Un po’ democristiana un po’ massimalista. Ma il percorso politico di Elly Schlein smentisce questa doppia caricatura
- Tra movimenti e istituzioni, tra tattica e strategia, la segretaria del Pd si muove su una corda sottile e tesa. Per non deludere un’attesa mai così grande serve meno armocromia e più politica
- Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
Di tutto si sentiva il bisogno, nella nuova primavera-estate democratica, fuorché dello psicodramma stonato sulla look strategy di Elly Schlein. Nelle stesse ore in cui il governo Meloni andava sotto in aula sul Def e si mostrava gigante con i piedi d’argilla. Nei minuti della piazza lucente di Milano, con i partigiani e gli studenti, le famiglie con i bambini, l’entusiasmo ritrovato e la carica dei centomila. Nelle settimane dei sondaggi in crescita, finalmente, alla mano. Il partito anatroccolo tornato cigno si incarta sull’outfit.
La good company fondata dai nuovi azionisti dei gazebo, che hanno trasformato un gruppo politico considerato ormai scadente e scaduto in un laboratorio di futuro possibile, si scopre vulnerabile alla copertina di Vogue. Piove sul bagnato del mal di pancia a bordocampo. Sul dibattito sulla segreteria insufficiente e imperfetta. Sulla grande domanda che si solleva come polvere da sotto il tappeto: chi è davvero Elly Schlein? Cosa nasconde? Ed è subito caricatura.
Elly Schlein massimalista, dice Enrico Borghi (Borghi chi?) sbattendo la porta e alzando la posta, direzione Italia Viva. Elly Schlein democristiana, scrivono un po’ tutti il giorno dopo la sua prima conferenza stampa al Nazareno. E viene un po’ lo sconforto. Davvero adesso, a un anno esatto dalle elezioni europee che potrebbero ridisegnare, in tempi medio-brevi, equilibri che sembravano una condanna già scritta, il tema è capire dov’è la truffa? Sembra questo il nuovo Cluedo democratico, che a volte fa pensare anche agli ottimisti della volontà che a sinistra non c’è speranza. E allora bisogna fare uno sforzo e uscire dalla sala giochi del post congresso. Districarsi tra l’ossessione pop e il politicismo della polemica ennesima e nonsense tra riformisti e radicali.
Disinteressarsi con impegno e con fatica alla personal shopper, come facevamo ai tempi dei maschi al potere. Intascare la delusione e la voglia di chiamare il centralino del Nazareno, farsi passare Elly Schlein al telefono e chiedere: perché lo hai fatto, Elly, perché? Che ce ne frega, adesso, dell’armocromia? E prendersi in braccio questa domanda che resta. Sopravvive alla satira di Crozza e ai meme su Instagram. E rischia di trasformarsi in un acufene.
Una insopportabile interferenza di fondo, che sporca l’acqua al minuto uno di una storia che credevamo diversa. È la domanda di fondo sulla “Elly bifronte”. E bisogna provare a rispondere, senza fare l’arringa. O provare a smontarla.
Eterna emergente
Questo sospetto che Elly Schlein ci nasconda qualcosa ci accompagna dall’inizio. Dalla famosa notte delle primarie vinte a sorpresa. Dalla famosa frase del «non ci avete visto arrivare». Effettivamente bellissima e ottima per tg e social reel. Ma quelli attenti, anche se prima erano alle ultime file, Elly Schlein l’hanno vista arrivare eccome. Nel 2013, dopo la truffa regina dei 101 che ha fermato Romano Prodi al Quirinale. Alla testa dell’operazione Occupy Pd e Siamo più di 101, al fianco del talento eternamente deriso di Pippo Civati. E nel 2014, alle europee: 29 anni e 53mila preferenze. Stacco inatteso sull’ex parlamentare Salvatore Caronna, vicino a Gianni Cuperlo. Titolo del Resto del Carlino: «L’emergente Elly Schlein, è lei la sorpresa del Pd». Commento della neo eletta: «Ho vinto prendendo spunto da Obama».
Sorpresa, dunque, nove anni fa. Quando aveva fatto già per due volte la volontaria per le due elezioni di Obama. E aveva imparato la sua specialità: campagna porta a porta, sui territori. E però anche un sito interattivo e i video virali sui social network. Se alla prova delle preferenze Schlein regge botta, il suo talento tra Bruxelles e Strasburgo la disegna subito come animale politico dolcemente complicato. Non però metà massimalista e metà democristiana, come vuole la parodia di queste settimane. Funanbola per scelta, piuttosto. Su una corda sottile e tesa. Che da un lato si aggancia ai movimenti e dall’altro alle istituzioni. Con intelligenza non solo tattica, ma strategica. Oppure furbizia, a seconda dei punti di vista.
Perché cadere dal filo, in quegli anni, significa ferirsi nella tagliola populista dei Cinque stelle a vento nelle vele. E Schlein non cade. Per non cadere, si mette scomoda. Non si accasa nel Pd, ma approda in quella terra di confine, minuscola e corsara, che si chiama Possibile, di cui con Pippo Civati e Beatrice Brignone diventa il riferimento centrale.
Intanto, resta lucida. Nel 2019 «salta un giro». Dice davvero e a tutti così e non si ricandida in Europa, rinunciando con lungimiranza alla proposta della lista La Sinistra (a rischio quorum e che infatti naufraga sotto il 3 percento). Dopo averla vista arrivare, mentre Pippo Civati lascia la politica e apre una casa editrice e i Cinque stelle sono primo partito, con Giuseppe Conte solo al comando e il Pd e le piccole sinistre di contorno ai nastri, Elly tira il fiato ma non molla. E, al posto di dirompere, aspetta e un po’ si nasconde.
La calda estate 2019
È la parte meno raccontata della storia, quella dell’estate 2019 in cui Elly Schlein sembra finita prima ancora di cominciare, il “Pd di sinistra” annega nella palude giallorosa (con una s) zingarettiana e ogni sinistra fuori dal Pd oscilla tra il miraggio di una Podemos italiana mai nata e il rischio di restare fuori da ogni parlamento (europeo oggi, nazionale domani). Inizia, in giro per l’Italia, una primissima smisurata preghiera collettiva, che vuole Schlein a capo del quarto polo immaginario. Il tentativo è generoso e sincero. E si basa su una tesi neovendoliana: il Pd non è riformabile e dunque va costruito un partito grande alla sua sinistra. Ecologista, solidale e femminista, con una donna al comando.
Nessuno ha visto con i suoi occhi il Fortunadrago di questa storia infinita della “sinistra larga” fuori dal Pd. E nessuno sa se davvero Nicola Fratoianni, in quella calda estate pre Covid e post esclusione dal parlamento europeo, abbia davvero corteggiato Elly Schlein fino allo sfinimento perché si inventasse leader di una “Cosa Rossa” nazionale, come hanno ripetuto per mesi da Sinistra italiana. Nessuno nemmeno sa se ad aiutare Fratoianni per convincere Elly si sia davvero messo anche Peppe Provenzano, con il gruppo di Sinistra Anno Zero e gli studenti e i ricercatori universitari di Roma La Sapienza.
O Schlein o De Magistris o il “grande nulla”. Questo si ripete negli ultimi battiti dei primi vent’anni degli anni Duemila. Ma Schlein resiste alle preghiere e alle lusinghe e dice no. Non vuole fare la leader di un soggetto di minoranza. L’eskimo Elly Schlein se lo toglie lì. Senza personal shopper a 300 euro all’ora. Fa tutto da sola e gioca d’azzardo. Si nasconde di nuovo e aspetta ancora.
Un prevedibile imprevisto
E intanto, mentre cambia il mondo, lei cambia scala. Resiste alle sirene a sinistra e all’ennesimo corteggiamento piddino e torna a casa. E ben prima di diventare l’anti-Meloni, plana nell’Emilia Romagna che Matteo Salvini spera di espugnare, citofonando ai palazzi e bruciandosi per autocombustione, e fa una lista civica che autoproclama “coraggiosa” senza timore di smentita. Sfida il leader della Lega e conquista in un colpo solo i media e le persone, lasciando a Stefano Bonaccini il ruolo di rassicurante presidente-amministratore.
Non disdegna sostegni di lusso come Romano Prodi, Vasco Errani e Pierluigi Bersani, ma non dimentica un solo comune e un solo comizio, gli studenti, i comitati ambientalisti, i sindacati, i circoli Arci. Gioca ancora sulle preferenze e va di nuovo a dama. Gli anni questa volta sono 35, le matite che scrivono il suo complicato cognome 22mila. Ancora chi non ha voluto vedere non l’ha vista arrivare. Bonaccini però porta gli occhiali grandi e la vede così bene che la nomina sua vice. Con deleghe pesanti che avrebbero mandato in apnea chiunque. Elly non si intiepidisce né si inabissa. Non perde di vista la cartina dell’Italia. Non dismette la rete nazionale che da un decennio annaffia con metodo e cura.
E mentre, come nella vignetta di Altan, Mario Draghi si staglia super partes («perché me le sono magnate tutte») ed Enrico Letta prova a defibrillare il Pd dopo il Zingaretti-crash, Elly prende la rincorsa e prova a scartare di lato. Ritorna al gran mix tra territori e web, al grande sogno di guarire un partito esangue dall’integralismo moderatista e inizia a pedalare verso la cima.
Intanto un’altra donna diversamente giovane e diversamente inesperta ha portato la destra post fascista a palazzo Chigi, prova provata che la ricetta riformista-moderata non incontra i gusti dello spirito del tempo. E così, anche se nessuno di quelli di prima ha voluto davvero vedere, Schlein fa campo libera tutti. Esordiente a dieci anni dal vero esordio. Imprevisto benedetto, tutt’altro che imprevedibile. E il Pd dei comitati d’affari, dei clientelismi e dei capibastone torna a profumare. Il paradiso all’improvviso.
Il meglio deve venire
Non ci sperava nessuno, nella forza erotica e generativa di questo congresso. Ed è un lieto fine talmente appagante per il “Pd di fuori” e talmente traumatico per il “Pd di dentro” che trasformarlo in un lieto inizio rischia di essere troppo. Anche per una come Elly Schlein. Ed è per questo, solo per questo, che c’è qualcosa di questi primi mesi di Schlein segretaria che non riusciamo a perdonarle. Che trasforma l’armocromia in tragedia. Non in un errore blu, un ferimento semantico, un eccesso di libertaria contemporaneità. Proprio nell’apocalisse.
È lo stesso qualcosa che ci stanca nelle sue risposte lunghissime e complesse alle domande dei giornalisti che l’hanno accerchiata nell’auditorium del Nazareno. La descrizione da ingegnere ambientale del ciclo di smaltimento dei rifiuti. Le materie prime, le materie seconde, i numeri e le statistiche dell’economia circolare. La lunga disamina del Trattato di Dublino. Il linguaggio altissimo, purissimo e quasi accademico da lezione di master di secondo livello. Una rivoluzione nella rivoluzione, che ci porta in alta quota e però anche lontani dal marciapiede dei territori e dei gazebo e degli elettori dei Cinque stelle, della Lega e di Meloni che vogliamo riconquistare.
Qualcosa pure ci delude profondamente nella squadra che ha scelto. Perché anche se Marta Bonafoni e Annalisa Corrado sono le più brave in circolazione e Marco Furfaro merita non solo un posto in Parlamento ma nella vita adulta di una sinistra adulta, non si capisce bene perché siano stati scelti vecchi nomi alle sfide nuovissime del lavoro e dell’innovazione, perché non far continuare a Peppe Provenzano il lavoro sul Mezzogiorno e sulle aree interne in cui aveva coinvolto anche quel genio poetico di Franco Arminio e non affidare gli Esteri a Pina Picierno, coraggiosa e audace nel lavoro con Kiev, perché non chiedere a sindaci come Antonio Decaro, Dario Nardella e Matteo Lepore di mettersi a disposizione del paese e non solo dell’Anci o delle città, perché non chiedere a un grande artista di scrivere le politiche culturali e a un giornalista precario o a un blogger o un podcaster di occuparsi di informazione.
Il popolo democratico è tornato ed è tornato a sognare in grande. Vuole vendicare davvero la storia dei 101 di dieci anni fa ed eleggere di nuovo il prossimo presidente della Repubblica (Paolo Gentiloni è già pronto, dice qualcuno). Vuole che il Pd sia di nuovo primo partito alle Europee.
E poi torni di nuovo a palazzo Chigi. E però con quel sapore di Obama degli inizi. Gioia e rivoluzione. Politiche e batticuore. Colpi d’ala simbolici. Rumore del vulcano. Tutto e subito. Effetto wow. È tanta roba, Elly Schlein. Non è mai stata chiesta a nessuno. È per questo che il meglio deve ancora venire.
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