Non sarà mai una partita normale. Da sempre, è lo scontro tra ideologie, filosofie, culture, stati d’animo diversi. La città ogni volta si divide. Anche se non più, certo, come un tempo
Il derby di Torino, che si giocherà sabato 7 ottobre alle 18, non sarà mai una partita normale. Da sempre, è lo scontro tra ideologie, filosofie, culture, stati d’animo diversi. La città ogni volta si divide. Non più, certo, come un tempo: quando della Juve (o della ”Giuve”) erano, soprattutto, i lavoratori meridionali della Fiat Mirafiori che, almeno la domenica, trovavano una sintonia con il padrone Agnelli, più una certa borghesia sabauda, mentre ad essere del Torino (meglio: del Toro), consacrato al mito eterno degli Eroi di Superga, erano i piemontesi dei quartieri periferici e della campagna.
Mario Soldati (bianconero), ne “Le due città”, romanzo del 1964, scrisse: «Attraversarono piazza Vittorio, sterminata nelle prime ore della sera. Già parlavano di football. Emilio, naturalmente, era per la Juventus, la squadra dei gentleman, dei pionieri dell’industria, dei gesuiti, dei benpensanti, di chi aveva fatto il liceo: dei borghesi ricchi.
Giraudo, altrettanto naturalmente, era per il Toro, la squadra degli operai, dei bottegai, degli immigrati dai vicini paesi o dalle province di Cuneo e di Alessandria, di chi aveva fatto le tecniche: dei piccoli-borghesi e dei poveri. Giraudo si appassionava. Sentiva che poteva, senza nessun rischio, trasferire la sua avversione per la Juventus, e nel suo amore per i rosso-granata del Torino, tutto il suo socialismo mortificato».
Oggi la città della Mole è diventata una geografia multiculturale, dove la maggior parte degli immigrati, soprattutto dall’Africa, è appassionata juventina, in special modo durante le stagioni alla corte della Vecchia Signora di Cristiano Ronaldo, mito globale.
I due fronti
La stracittadina dividerà l’intellighenzia cittadina: penso, ad esempio, ai torinisti Gian Carlo Caselli, Alessandro Baricco (che al teatro Bonci di Cesena, nel 2001, durante il primo raduno della nazionale scrittori “Osvaldo Soriano”, narrò, con passione, l’epica del suo idolo Paolino Pulici, il breriano “Puliciclone”), Massimo Gramellini, Giuseppe Culicchia, Mauro Berruto, Gian Paolo Ormezzano; oppure agli juventini Giovanni De Luna, Luca Beatrice, Paolo Bertinetti, Chiara Appendino, Benedetto Camerana, Evelina Christillin.
A cantare il derby fu, sopra tutto e tutti, Giovanni Arpino, il “bracconiere di storie e personaggi” che, scrivendo di calcio, sdoganò definitivamente il raccontare di pallone e sport, portandolo nell’Olimpo letterario. Così vedeva le due rivali: «La Juventus è universale, il Torino è un dialetto. La Madama è un ‘esperanto’ anche calcistico, il Toro è gergo. E qui il peso del campanile trova finalmente sfogo, piedestallo, unicità espressiva, anche se l’immagine della squadra granata è amata per quanto seminato, tanto tempo fa e in ogni luogo d’Italia, i gol e i lutti dei Valentino Mazzola e dei Maroso».
Per Arp la Juve era “stile e stiletto”, mentre per il Toro inventò, nell’anno dello scudetto 1976, il neologismo “tremendismo granata”. Ma per chi tifava il Premio Strega del ‘64 con “L’ombra delle colline”: per la Juventus o per il Torino? Per l’Inter!
Ambrosiana
Il critico letterario Bruno Quaranta (bianconero) scrisse: «Negli anni Cinquanta Arp aveva covato una passione ‘ambrosiana’, come testimoniano la moglie, signora Caterina, e Bruno Perucca, giornalista del foglio torinese, amico sugli spalti, in redazione, intorno a una tavola imbandita».
E Arpino fu padrino di battesimo di Gianfelice Facchetti, figlio del grande Giacinto. All’autore di “Una suora giovane” dobbiamo una delle più belle poesie sul calcio, in dialetto piemontese: “Me grand Turin”, Mio grande Torino, dedicata alla Squadra degli Invincibili scomparsi nel rogo di Superga.
Il Toro non vince un derby dal 2015, ma ogni pronostico, quando si parla di stracittadina, è inutile. Ricordo una partita del 2001. Juventus, dopo il primo tempo, in vantaggio per 3-0. I granata si riprendono e vanno sul 3-3. Quasi allo scadere il cileno Salas, puntero bianconero, sbaglia un rigore. Sto tornando in auto da Cesenatico, squilla il mio telefonino. È Enrico Deaglio, granatissimo.
Sa della mia fede per la Vecchia Signora, nata appena arrivato in Italia dal Brasile nel 1961, mentre a San Paolo tifavo e tifo per il Palmeiras, che un tempo si chiamava Palestra Italia. Non ci sentiamo da almeno un anno. Non mi dice: «Ciao, come stai?». Non mi saluta nemmeno. Si limita a srotolare in fretta queste parole: «Nel mondo ci sono due entità che combattono il male: i pompieri di New York e il Toro». Clic! Anche questo è derby.
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