«Alla mia età, vedere così il mio paese fa impressione. Ho visto gli anni della guerra, dei bombardamenti, dei morti. Del terrorismo. Ma al terrorismo puoi reagire, financo alla guerra puoi reagire. Oggi sembra che l’unico riparo sia stare a casa. Chiusi. Tutti separati. Questo avrà conseguenze su tutti noi, nel profondo. Siamo costretti a combattere la paura restando soli». Emanuele Macaluso se n’è andato stanotte, nell’era della pandemia lo ha portato via una brutta caduta e un male al cuore, un cuore provato dai suoi quasi cent’anni ma anche dalla sensazione di solitudine dell’era del contagio, «questa cancellazione della vita sociale influirà in tutti noi», ci aveva raccontato, quella disperazione di affacciarsi sul vuoto, «ci pensi che dalla finestra non si vede nessuno? Questa piazza di Testaccio (il quartiere nel cuore della Roma rossa, dove abitava, ndr) è sempre stata piena. Oggi c’è silenzio, non una persona». Altro che la favola bella del ‘ne usciremo migliori’: della pandemia Macaluso aveva subito colto il tratto cupo e controrivoluzionario: la necessità del distanziamento, l’elogio dell’isolamento, la beffa dell’autosequestro volontario. Tutto il contrario della sua vita.
Coscienza critica della sinistra, ha ragionato di politica letteralmente fino alle sue ultime ore, con passione e generosità. Negli ultimi anni per alcuni di noi ex giovani cronisti l’intervista con Emanuele Macaluso era la festa della primavera. Perché Macaluso era nato il 21 marzo, 96 anni fa, e a parte le altre conversazioni sparse, qualche pranzo alla sua trattoria preferita, sempre a Testaccio, la conversazione del compleanno era il rito annuale e propiziatore di una riflessione che andava un po’ oltre la cronaca. Era troppo ironico e affilato, troppo siciliano per avere pretese da storico. Non ne aveva bisogno. Macaluso era la storia. Da politico, sindacalista, giornalista, era stato protagonista e testimone delle vicende di un secolo, e non solo quello scorso. Quasi centenne, è sempre rimasto contemporaneo. Iscritto al Pcd’I clandestino prima della caduta del fascismo, dirigente della Cgil, e poi dei comunisti in Sicilia ai tempi di Portella della Ginestra aveva lasciato il suo posto a Pio Latorre; poi parlamentare, direttore dell’Unità degli anni 80, del Riformista, dirigente del suo Pci fino alla soglia del Pd, partito «malnato» del quale già nell’anno della fondazione, il 2007, tutto aveva visto e previsto nella controstoria «Al capolinea». Negli ultimi anni la sua rubrica Em.ma in corsivo su facebook era la nota quotidiana di chi cercava ancoraggi solidi nella palude della sinistra liquida.
Nella sua Sicilia fu l’inventore del «milazzismo», una lista che riuscì a mandare la Dc all’opposizione, con un governo sostenuto da comunisti, socialisti, monarchici, Msi e fuoriusciti Dc (i compagni che ne fecero parte dovevano restituire la tessera del Pci, ma Togliatti era con loro). Era perito industriale ma quella politica e quel Pci ne avevano fatto un meridionalista colto. Nel 1963 fu chiamato in segreteria da Togliatti e vi restò con Luigi Longo e Enrico Berlinguer, di cui fu collaboratore e poi critico. Era migliorista, la corrente del suo grande amico Giorgio Napolitano, ma era il migliore dei miglioristi perché il più laico e il meno incline ad atteggiamenti cingolati, come ha raccontato di recente Luciana Castellina, «dopo la radiazione del gruppo del manifesto l’unico che non ci aveva tolto il saluto». Nel suo «Comunisti e riformisti» su Togliatti e la via italiana al socialismo (2013) ha riletto e scritto le diverse anime della sinistra italiana. Ma per goderselo davvero bisogna aprire «Politicamente scorretto», il libro-intervista con il suo caro Peppino Caldarola, anche lui scomparso lo scorso settembre, l’ultimo dolore per un uomo che aveva seppellito il figlio Pompeo, e molti cari amici. Quel libro contiene la sua biografia e quella del «riformismo» italiano, parola abusata, in genere una medaglia autoassegnata, e che solo pronunciata da lui era incontestabile.
Una scelta riformista che dagli anni 60 era ‘la destra comunista’ e che oggi, aggiornata ma intatta, potrebbe essere confusa per sinistra radicale. E invece il suo socialismo era la versione migliore del comunismo italiano, una strada popolare e amendoliana imboccata all’inizio e della quale ha sempre tenuto la direzione di marcia, senza svoltare per terze vie o per gli astratti furori della globalizzazione, o per il governismo in quanto tale («la svolta fu giusta ma condotta male»), né per il riformismo dall’alto o per le altre invenzioni dei suoi zigzaganti compagni, quelli che prima lo definivano moderato. Attraverso la sua persona, la sua inestinguibile passione politica, la cultura del Pci ha potuto fare conti lasciati aperti a futura memoria. Per esempio con Sciascia (ne «I comunisti e Sciascia», 2010), quasi suo compaesano (Emanuele era nato a Caltanissetta), amico e compagno dai tempi della clandestinità, e che poi aveva lasciato il Pci in dissenso sul compromesso storico e sulla linea della fermezza sul sequestro Moro. Con lo scrittore aveva avuto contrasti a tinte forti. Ma al suo partito, a tutta la sua sinistra, Macaluso – che era stato il comunista più vicino al Psi - contestava che di Sciascia non aveva saputo sposare il garantismo e l’idea che «la battaglia contro la mafia si fa con la legge ordinaria, non con le eccezioni, e con la politica e la lotta sociale». Denunciò fra i primi i «santuari» del potere, e per primo Portella della Ginestra come «Strage di stato», il libro su cui tornò di recente per riflettere ancora: aggiornava le sue riflessioni, anche a distanza di tanti anni. Fino all’ultimo: nei prossimi giorni, a cent’anni dalla nascita del Pci, uscirà una libro-conversazione con Claudio Petruccioli, «Comunisti a modo nostro» (Marsilio).
Macaluso era paziente e protettivo con i giovani ma severo con i dirigenti di oggi, «oggi la politica è debole, non ha la forza di essere protagonista della soluzione dei problemi», testardo «sulla necessità di un partito», «Non capiscono che siamo di fronte a problemi epocali, se non si ha la dimensione del problema non lo si può leggere e dominare. Per questo è un errore pensare che i grandi partiti non servano più. Sono comunità politiche che esprimono cultura, solidarietà, capacità di iniziativa e di governo». Quando si trovò a presentare il libro sul socialismo a lui dedicato da Peppe Provenzano, suo figlioccio politico e allievo, che gli è stato vicino fino a questi ultimi giorni, si disperava «ma questo libro dove si dibatterà, non esiste un luogo, non c’è la sede, non c’è l’interesse», diceva, «la battaglia per il socialismo dovrebbe essere frutto di dibattito. E per il dibattito mancano gli strumenti di elaborazione, di riflessione e anche di contrasto. Mancano le riviste. Manca un giornale». Manca un partito, concludeva, senza mai perdere la voglia di costruirlo. Non il Pci, «una storia irripetibile». Ma non ha mai ceduto all’illusione dei «partitini». Lascia la moglie Enza, il figlio Antonio, e un piccolo esercito di adorati nipoti. E tanti amici. Con Macaluso se ne va «un gigante», ha scritto ieri il suo amico e compagno socialista Rino Formica, si conclude una delle ultime biografie contemporanee del comunismo italiano, in una sua rara versione laica, eretica, appassionata, generosissima.
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